Il Papa all'arrivo a Bogotá

Colombia, tutti i passi di Francesco

Un percorso nei fatti più significativi della visita del Papa in Colombia. La donna che rinuncia all'eutanasia, il perdono delle vittime del conflitto, la lettera del leader delle Farc. E le parole e i gesti di un uomo che scuote le coscienze e la storia
Alessandra Stoppa

C’è Consuelo Cordoba, che da diciassette anni vive con il passamontagna e i tubicini al naso, perché il suo volto e il suo corpo sono stati sfigurati con l’acido dall’ex marito. Dopo 87 operazioni, ha fissato l’eutanasia per il 29 settembre. A Bogotá, in Nunziatura, incontra il Papa per chiedergli la benedizione prima di morire. Lui gliela nega. «No, non lo farai», le dice: «Tu sei coraggiosa e sei bella». Consuelo da quell'incontro ha deciso di annullare l’iniezione. «Il Papa mi ha abbracciata e mi ha fatto questo regalo. Io ora voglio vivere», racconta, «perché Dio sta per portare grandezza nella mia vita».
Poi c’è il leader delle Farc, Rodrigo Londoño, che scrive a Francesco: «Ho visto piangere di emozione uomini, donne e bambini, che ammirano la sua bontà e la luce dei suoi occhi. Dio è con lei, non c’è dubbio. Dal suo primo passo nel mio Paese ho sentito che qualcosa può cambiare». E poi supplica il perdono: «Per qualsiasi lacrima o dolore abbiamo provocato».
La lettera dell’ex guerrigliero viene diffusa durante l’intenso viaggio in Colombia del Papa, partito pellegrino facendo di persona quel “primo passo” che chiede a tutti, in un Paese dilaniato da cinquant’anni di guerriglia e terrorismo, da 260mila morti, più di 45mila desaparecidos, e che oggi vive il travaglio del processo di pace.

In queste giornate il Papa ha fatto tanti passi, molto forti, i suoi gesti e le sue parole, intrinsecamente uniti, scuotono, e non solo la Colombia, esattamente come «un uragano», ha detto Ingrid Betancourt: «È passato muovendo le strutture e interpellando intimamente i cuori. Ci ha obbligati a guardare noi stessi come vorremmo essere e come dovremmo guardare chi ci ha fatto del male». La sua bontà giudica tutto, abbraccia e mette in discussione. Francesco sa bene la forza di cambiamento che porta: «La Chiesa è scossa dallo Spirito», ha detto a metà viaggio: «Ma il rinnovamento non deve farci paura».



  • «Sono qui per aprire il mio cuore»

La prima cosa a colpire è che fa visita a un Paese così cruciale e provato, ma non punta il dito sui grandi problemi da risolvere, né denuncia: lui trasmette la stima immensa che ha per quello che la gente vive. Lo esprime lungo tutto il viaggio, in ogni modo: «Vengo per imparare da voi, dalla vostra fede, dalla vostra fortezza di fronte alle avversità», dice nel primo saluto al popolo colombiano dal balcone del Palazzo cardinalizio di Bogotá.
Lo dimostra nel rispetto con cui parla: «Io sono qui non tanto per parlare ma per stare vicino a voi e guardarvi negli occhi, per ascoltarvi e aprire il mio cuore alla vostra testimonianza di vita e di fede», dice alle vittime del conflitto armato nell’incontro di Riconciliazione: «Se me lo permettete, vorrei anche abbracciarvi e, se Dio me ne dà la grazia - perché è una grazia - vorrei piangere con voi, vorrei che pregassimo insieme e che ci perdoniamo. Anch’io devo chiedere perdono». E il suo metodo è osservare sempre le scelte di Dio: «Egli cambia il corso degli avvenimenti chiamando uomini e donne nella fragilità della storia personale e comunitaria di ciascuno», come dice ai sacerdoti e ai consacrati il terzo giorno: «Dentro a questo cambiamento epocale, dentro questa crisi culturale, in mezzo ad essa, tenendo conto di essa, Dio continua a chiamare. E non venite a raccontarmi che non ci sono le vocazioni perché c’è la crisi… È una favoletta! Dio manifesta la sua vicinanza e la sua elezione dove vuole, nella terra che vuole, così com’è in quel momento, con le contraddizioni concrete, come Lui vuole».

  • «La soluzione al male»

La preghiera per la Riconciliazione nazionale è il momento centrale del viaggio e avviene nel Parco Las Malocas a Villavicencio, la città ai piedi delle Ande simbolo del conflitto, che apre agli llanos, le sterminate pianure orientali, dove si incontrano anche le due anime della Colombia, creola e meticcia, la città e gli indigeni.
L’incontro avviene su un grande palco e davanti a un piccolo Cristo senza braccia né gambe, ritrovato nella chiesa di Bojayá, il 2 maggio 2002, quando un attacco delle Farc uccise 119 persone. Davanti al Papa e a 260mila persone, risplende quello che dice il gesuita padre Francisco de Roux, tra i mediatori del processo di pace: «Ho visto coi miei occhi il potere di trasformazione che hanno le vittime. La loro presenza ha cambiato non solo i negoziati, ma i negoziatori: ha cambiato le Farc».
Tra le testimonianze di perdono, c’è quella di Pastora Mira García. Le sono stati uccisi il padre, poi il marito, poi il figlio. Della figlia ha trovato il cadavere dopo sette anni di ricerche. Al Cristo mutilato offre una camicia che sua figlia aveva regalato al fratello e tutto il suo dolore. «Dobbiamo spezzare questa catena che appare ineluttabile, e ciò è possibile soltanto con il perdono, con la riconciliazione concreta», dice il Papa commosso: «Tu, cara Pastora, e tanti altri come te, ci dimostrate che questo è possibile». Guarda i segni sul corpo delle vittime e degli ex guerriglieri («siamo vittime, innocenti o colpevoli, ma tutti vittime»), e dice a un’altra giovane vittima Luz Dary: «Benché ti rimangano ancora ferite, la tua andatura spirituale è veloce e salda. Col tuo amore e il tuo perdono stai aiutando tante persone a camminare nella vita, a camminare rapidamente come te».
Durante l’incontro si fa carne il passaggio sulla giustizia dell’Evangelii Gaudium: «L’autore principale è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi, di una minoranza illuminata». E dal palco è ancora più radicale: «Gesù trova la soluzione al male compiuto nell’incontro personale tra le parti. Nessun processo collettivo potrà sostituire questo incontro riparatore, la sfida di incontrarci, di spiegarci, di perdonare. Le ferite profonde della storia esigono necessariamente istanze dove si faccia giustizia, dove sia possibile alle vittime conoscere la verità, il danno sia riparato e si agisca con chiarezza per evitare che si ripetano tali crimini. Ma tutto ciò ci lascia ancora sulla soglia delle esigenze cristiane». Mentre quello che sta accadendo in Colombia va oltre: «Chi è vittima è chiamato a prendere iniziativa, perché chi gli ha fatto del male non si perda. Con l’aiuto di Cristo, di Cristo vivo, è possibile vincere l’odio, vincere la morte».


«Ho visto coi miei occhi il potere di trasformazione che hanno le vittime. La loro presenza ha cambiato non solo i negoziati, ma i negoziatori»

  • L’uomo concreto

L’invito di fondo, che attraversa tutto il viaggio, è ad avere lo sguardo sempre fisso all’uomo concreto. Lo chiede a parole e vibra in ogni sua azione, in ogni carezza ai militari in sedia a rotelle, alle vittime, ai malati, al bambino che rompe il protocollo e affonda il viso nella sua veste con la bandierina del Venezuela (per cui Francesco fa pregare più volte, fin dal volo di andata).
Nell’incontro con i Vescovi colombiani dice: «Non servite un concetto di uomo, ma la persona umana amata da Dio, fatta di carne, ossa, storia, speranza, sentimenti, delusioni, frustrazioni, dolori. Vedrete che questa concretezza dell’uomo smaschera le fredde statistiche, i calcoli, le strategie, le informazioni distorte». E richiama a una cosa essenziale: alla Chiesa «non interessa altro che la libertà di pronunciare quel nome, Gesù. Non servono alleanze con una parte, con un’altra, ma la libertà di parlare al cuore di tutti».

  • Il cuore impaziente

Le sue parole, gli esempi che porta, persino le battute, sono un modo per ricordare sempre che il mondo non si cambia con svolte improvvise, forze politiche o sforzi impossibili. Lui chiede di conservare «la serenità», imparando dal Signore: «I suoi tempi sono lunghi, perché è smisurato il suo sguardo di amore. Quando l’amore è scarso, il cuore diventa impaziente, turbato dall’ansia di fare cose, divorato dalla paura di aver fallito. Credete nell’umiltà del seme di Dio. Fidatevi della potenza nascosta del suo lievito».
Ai giovani dice: «Ascoltate quello che vi chiedo: aiutateci a guarire il nostro cuore. A non abituarci al dolore». Li invita all’impegno, ma «non al risultato compiuto». È una costante questo richiamo a non misurare i risultati, a un cammino lento e sempre aperto, che non finisce con noi uomini, incapaci di compiere ciò che desideriamo. Nella prima omelia del viaggio, lo richiama così: «Prendi il largo», come dice Gesù sulla barca di Pietro: «Noi possiamo invischiarci in discussioni interminabili, fare la conta dei tentativi falliti ed elencare gli sforzi finiti nel nulla; come Pietro, sappiamo cosa significa l’esperienza di lavorare senza nessun risultato». Ma Pietro è anche «l’uomo che accoglie con risolutezza l’invito di Gesù, lascia tutto e lo segue». Gesù, il suo modo di guardare e sentire, è sempre al centro di ogni intervento. Gesù è «il passo irreversibile», il passo del Padre che ci anticipa sempre. «Custodite, con santo timore e con commozione, il primo passo di Dio verso di voi», dice ai Vescovi.

«Quando l’amore è scarso, il cuore diventa impaziente, turbato dall’ansia di fare cose, divorato dalla paura di aver fallito. Credete nell’umiltà del seme di Dio»

  • «Il Signore non è selettivo»

Francesco fa dell’«inclusione» una priorità assoluta, a tutti i livelli, nella vita quotidiana, nella vita della Chiesa e delle comunità: «Il Signore abbraccia tutti!», dice il primo giorno: «Non è selettivo, non esclude nessuno. E tutti - ascoltate! - tutti siamo importanti e necessari per Lui». Anche nella costruzione della società, tanto che nell’incontro con le autorità politiche lo ripete più volte: «Rivolgete lo sguardo a coloro che sono tenuti indietro e in un angolo. Tutti siamo necessari. La società non si fa solo con alcuni di “sangue puro”, ma con tutti».
Richiama come assolutamente centrale il rispetto della vita, soprattutto la più debole e indifesa. E fa risuonare le parole di Gabriel García Marquez: «Tuttavia, davanti all’oppressione, il saccheggio e l’abbandono, la nostra risposta è la vita». È possibile «una nuova e travolgente utopia della vita, dove nessuno possa decidere per gli altri persino il modo di morire, dove davvero sia certo l’amore e sia possibile la felicità».
La “non esclusione” attraversa tutto il viaggio, anche nel tono duro dell’omelia a Medellín: «Quanta gente ha fame di Dio! E come cristiani si deve aiutarli a saziarsi di Dio: non ostacolare o proibire loro l’incontro. Fratelli, la Chiesa non è una dogana! Richiede porte aperte, perché il cuore del suo Dio è non solo aperto, ma trafitto dall’amore che si è fatto dolore. Non possiamo essere cristiani che alzano continuamente il cartello “proibito il passaggio”, né considerare che questo spazio è mia proprietà, impossessandomi di qualcosa che non è assolutamente mio!».



  • Essere discepoli

Sempre a Medellín, spiega come si vive da discepoli. Racconta di come Gesù, ai primi, abbia chiesto molto sforzo di purificazione. Loro si sentivano sicuri di alcune pratiche, di quello che sapevano e capivano, ma questo li dispensava dall’inquietudine, dal chiedersi: «Che cosa piace al nostro Dio?». E così Gesù indica loro che «obbedire è camminare dietro a Lui, e che quel camminare li poneva davanti a lebbrosi, paralitici, peccatori. Questa realtà domandava molto più che una ricetta. Per il Signore è di somma importanza che non ci attacchiamo a un certo stile. Andare all’essenziale è andare in profondità, a ciò che conta e ha valore per la vita. Gesù insegna che la relazione con Dio non è compiere certi atti esteriori che non portano a un cambiamento reale di vita. Il nostro discepolato non può essere motivato da una consuetudine, deve partire da un’esperienza viva di Dio e del suo amore».
Poi conclude: «Rimanete saldi e liberi in Cristo, perché ogni fermezza in Cristo ci da libertà: abbracciate con tutte le vostre forze la sequela di Gesù, conoscetelo, lasciatevi chiamare e istruire da Lui, cercatelo nella preghiera e lasciatevi cercare da Lui nella preghiera, annunciatelo con la più grande gioia possibile».
Nell’incontro coi religiosi, dà indicazioni precise per «rimanere in Gesù»: toccare la sua umanità, il suo sguardo e i suoi sentimenti, perché «Lui contempla la realtà non come giudice, ma come samaritano». Questo significa conoscere i suoi gesti e le sue parole: «Non rispondete a me, ma rispondetevi: quanti minuti o ore leggo il Vangelo ogni giorno? Chi non conosce le Scritture, non conosce Gesù. Chi non ama le Scritture, non ama Gesù». E poi: «Interpretare la realtà con gli occhi di Dio». Quindi, la preghiera: «Nella preghiera cresciamo in libertà, ci toglie dalla tendenza a centrarci su noi stessi e ci pone con docilità nelle mani di Dio». E non solo preghiera come domanda: «Abituatevi anche ad adorare, ad adorare in silenzio. Imparate a pregare così».



  • «Il protagonista della storia è il mendicante»

Il penultimo giorno, nel discorso alla Nunziatura, a Bogotá, si lascia travolgere dall’esperienza di Pietro, a cui Gesù «dà il nome». Però quel nome «ha diverse melodie», dice: «Pietro lo vive nel corso della sua vita», attraverso tutto: quando ama, sbaglia, crede, tradisce… «Il nome non perderlo», dice il Papa: «Quando Gesù ci chiama e ci dà il nome, non ci dà l’assicurazione sulla vita, questa dobbiamo difenderla noi con l’umiltà, la preghiera e mendicarla dal Signore. Dacci forza, Signore, perché possiamo andare avanti ciascuno sulla strada in cui ci hai chiamato. Nessuno possiede la sicurezza della perseveranza in quel nome, bisogna mendicarla. Non dimenticatelo. Se volete trionfare nella vita come vuole Gesù, mendicate, perché il protagonista della storia della salvezza è il mendicante!».

  • Testimoni

Sono tanti i volti, del passato e del presente, che mette davanti agli occhi dei colombiani e del mondo. Tutto quello che dice, tutto quello che è così desiderabile e sembra impossibile, invece è possibile, in qualcuno è diventato realtà. Sono le persone che «ci fanno uscire da noi stessi». I suoi discorsi ne sono puntellati: san Toribio di Mogrovejo, santa Laura Montoya, il beato Euse Hoyos… «Dio sceglie di insegnare a noi con l’esempio degli umili e di quelli che non contano»: per questo racconta la storia di Maria Ramos, di Isabel e di suo figlio Miguel, che hanno riconosciuto la Vergine di Chiquinquirá, patrona della Colombia.
I testimoni privilegiati sono i due martiri che beatifica a Villavicencio: Jesús Emilio Jaramillo Monsalve, il vescovo rapito e ucciso dalla guerriglia nel 1989; e il sacerdote Pedro María Ramírez Ramos, linciato nel 1948. Ma compagno di tutto il viaggio è san Pietro Claver: lo «schiavo dei neri per sempre», come si fece chiamare nel giorno della sua professione solenne. Aspettava le navi che arrivavano dall’Africa al mercato degli schiavi e li accoglieva senza poter comunicare a parole, solo coi gesti: «Una carezza va al di là di tutte le lingue», dice il Papa. San Claver è morto da solo nella sua cella, dopo quattro anni di abbandono e malattia: «Così ripaga il mondo. Dio lo ha ripagato in una altra maniera».
Francesco richiama più volte questi uomini santi, come pure «le migliaia di colombiani anonimi che nella semplicità della loro vita hanno saputo donarsi per il Vangelo. Ci mostrano che è possibile portare molto frutto, anche adesso, in questo tempo e in questo luogo».

«Solo Lui è capace di sciogliere ciò che a noi appare impossibile, Lui ci ha promesso di accompagnarci fino alla fine dei tempi, e Lui non lascerà sterile uno sforzo così grande»

  • La certezza

A Cartagena il viaggio finisce. Ancora una volta, Francesco scuote, è già più in là: «Non basta fermarsi al primo passo. Bisogna continuare, giorno per giorno, ad andare incontro all’altro. Rinunciando alla pretesa di essere amati senza amare». Non è una nostra forza: «Solo Lui è capace di sciogliere ciò che a noi appare impossibile, Lui ci ha promesso di accompagnarci fino alla fine dei tempi, e Lui non lascerà sterile uno sforzo così grande».