Monsignor George Abou Khazen, vescovo di Aleppo. Foto: Filmati milanesi

Aleppo, gli orfani dell'Isis e il muftì che perdona

La città, dopo la liberazione, resta traumatizzata. Tantissime le sfide, come il destino di migliaia bambini. Il vescovo latino George Abou Khazen racconta il contributo dei cristiani alla ricostruzione. E il sogno di una Siria «moderna e pluralista»
Luca Fiore

Il dato più impressionante è quello degli “orfani della jihad”. Solo ad Aleppo sarebbero duemila, per gli ottimisti. Potrebbero essere anche tre volte tanto. Bambini, figli dei foreign fighters, messi al mondo da donne, anche loro straniere, arrivate in Siria per contribuire alla seconda generazione di combattenti dello Stato islamico. Oggi, che i padri sono stati uccisi o si sono ritirati, questi piccoli vivono in campi profughi con o senza le madri.

Lo ha raccontato ieri, 20 settembre, monsignor George Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, invitato dal Centro Culturale di Milano per testimoniare la situazione della città liberata, lo scorso dicembre, dopo quattro anni e mezzo di assedio. L’incontro, organizzato in collaborazione con Associazione Pro Terra Santa (Ats), che si occupa di aiutare le opere della Custodia, si intitolava “La speranza tra le macerie”. E quegli orfani, bambini sotto i cinque anni, sono l’incarnazione di questa speranza dentro la contraddizione. Che ci siano, che abbiano davanti a loro una vita intera è, al di là di tutto, un seme positivo. Ma costituiscono una delle sfide più vertiginose a cui il Paese deve far fronte: nell’islam l’adozione è quasi impossibile e la Siria non ha orfanotrofi per accoglierli. Nessuno riesce a immaginare un futuro per loro.

«La liberazione di Aleppo ha segnato una nuova tappa della guerra», ha spiegato Abu Khazen: «È stata un incentivo a sperare che anche il resto del Paese possa essere liberato dai gruppi terroristici. E ha allontanato lo spettro di una futura divisione della Siria. Noi crediamo ancora alla creazione di uno Stato moderno e pluralista, in cui i diversi gruppi etnico-religiosi possano convivere pacificamente».

L'incontro al Centro culturale di Milano

Il vescovo racconta che il timore, ad assedio ancora in corso, era che Aleppo passasse sotto il controllo della Turchia. In queste ore, dice, l’esercito regolare appoggiato dalle forze russe continua a guadagnare terreno e ha liberato gran parte della città di Deir ez-Zor, nell’Est del Paese, via d’accesso ai pozzi di petrolio, il cui sfruttamento darà ossigeno all’economia siriana sotto l’embargo internazionale.

«Oggi ad Aleppo vedo un gran desiderio di ricominciare una vita normale. Anche se la nostra è una città traumatizzata. Chi non ha visto morire davanti ai propri occhi familiari e amici, ha fatto esperienza diretta dei bombardamenti indiscriminati, della mancanza di elettricità e acqua».
Il vescovo mostra le immagini di Aleppo prima e dopo l’assedio: le macerie della grande moschea degli Omayyadi, il cui maestoso minareto è stato distrutto dai terroristi appena prima di ritirarsi, la grande Cattedrale maronita oggi senza soffitto, i palazzi sventrati. «Assistiamo al ritorno di alcune famiglie, ma non in larga scala. Tornano gli sfollati interni e qualcuno dal Libano. Tanti non si fidano ancora. Spesso le case, acquistate prima della guerra, sono state distrutte. E la gente non ha dove tornare».

Giacomo Gentile di Associazione Terra Santa (Ats)

Eppure la ricostruzione da mettere in cantiere non è solo quella degli edifici, ma anche quella delle persone, delle relazioni. Giacomo Gentile, di Ats, moderatore dell’incontro, parla di tre milioni di bambini che non hanno mai vissuto in tempo di pace: «L’ultima volta che sono stato in Siria, le maestre mi hanno raccontato che qualche allievo, alla domanda: “Che cosa vuoi fare da grande”, ha risposto: “Il bambino”». «Il supporto psicologico non si offre solo a scuola e anche noi cerchiamo di fare del nostro meglio», gli fa eco Abu Khazen: «Al Collegio di Terra Santa, una grande struttura di Aleppo, abbiamo fatto un campo da calcio, uno da basket e addirittura una piscina per insegnare ai bambini a nuotare. Qualche adulto non ha capito. Dicevano: “Ora c’è bisogno di cibo…”. E io ho risposto che in questo momento quella piscina è importante tanto quanto la Chiesa. C’è bisogno di ricostruire l’umano. E l’umano è anche questo».

Un altro ostacolo alla ricostruzione del Paese è la tentazione di vendetta. «Il perdono è una virtù propriamente cristiana. Ed è l’unico modo per fermare la spirale di violenza. Una delle nostre missioni di cristiani, oggi, è mostrare il perdono. E nel Paese qualcuno ha intuito l’importanza di questa virtù. Come Ahmad Badreddine Hassoun, gran muftì di Siria. Nel 2014 gli hanno ucciso il figlio come avvertimento dopo alcune critiche rivolte al Governo. Ai funerali ha detto: “Perdono gli assassini di mio figlio e prego perché mia moglie riesca a fare lo stesso”».

Il vescovo George Abou Khazen

Lo stesso muftì, come ad Abu Khazen, oggi si augura che la Siria si lasci alle spalle la guerra e diventi un Paese moderno e pluralista, nel quale, come in passato, possano convivere i 23 gruppi etnico-religiosi. Come prima, ma meglio di prima. «Il muftì si è spinto ad auspicare uno stato laico, anche se non laicista. Resta il problema della libertà di coscienza e della libertà religiosa. Ma se si arrivasse a tanto… Sarà valsa la pena di aver vissuto tutta questa sofferenza».

E i cristiani? Qual è il loro futuro?, chiede Gentile. «La comunità cristiana si pone tantissime domande. La Chiesa del futuro avrà un altro volto, rispetto a quello che aveva prima della guerra. Dobbiamo cercare di capire. Per questo stiamo organizzando un sinodo tra tutte le sei Chiese cattoliche, dei diversi riti, presenti ad Aleppo. Come logo dell’incontro abbiamo scelto l’immagine dei discepoli di Emmaus, che vengono confortati dalla presenza di Gesù».

Ogni tanto, confida il vescovo, qualcuno gli domanda cosa accadrebbe se i cristiani scomparissero dal Medioriente, e lui risponde: «Voi Europei avreste i talebani alle porte. La nostra presenza in quelle terre è importante per tutti. Ed è una missione che noi viviamo volentieri. Noi testimoniamo Cristo. E vi chiediamo di pregare perché possiamo portare le persone a Cristo. Paolo, il persecutore dei cristiani, si è convertito proprio alle porte di Damasco, che è in Siria. Ciò che è capitato una volta, chissà, forse si potrà ripetere».