Il cardinale Jean-Louis Tauran

Jean-Louis Tauran. Liberi di credere

È morto all'inizio di luglio. Francese, guida del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, nel 2013 annunciò al mondo l'elezione di papa Francesco. Da "Tracce" il suo storico discorso durante l'ultimo viaggio in Arabia Saudita
Jean-Louis Tauran

È morto nella notte tra il 5 e il 6 luglio il cardinale Jean-Louis Tauran, aveva 75 anni. Era dal 2007 il Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso e considerato tra i membri più influenti e stimati del collegio cardinalizio. Nel 2013, come protodiacono, aveva annunciato al mondo l'elezione di papa Francesco. Nato a Bordeaux nel 1943, è stato creato Cardinale da Giovanni Paolo II nel 2003. Nel servizio diplomatico della Santa Sede dal 1975, per tredici anni è stato a capo della Sezione per i Rapporti con gli Stati, compiendo molte missioni all’estero e guidando la delegazione vaticana in numerose conferenze internazionali. L'ultima sua missione, lo scorso aprile, è stato l'importante viaggio a Riad: la prima volta di un capo dicastero della Santa Sede in Arabia Saudita. In quell'occasione ha tenuto lo storico discorso che Tracce ha pubblicato nel numero di giugno. È l'intervento all'incontro con Muhammad Abdul Karim Al-Issa, segretario della Lega Musulmana mondiale.

Il cardinale Tauran annuncia l'elezione di papa Francesco, il 13 marzo 2013


Eccellenza, cari amici di Ràbita, la stessa Divina Provvidenza che ha guidato i vostri passi a Roma per incontrare Sua Santità Papa Francesco e noi, al Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, il 21 settembre 2017, ha portato anche noi nel Regno di Arabia Saudita, luogo di nascita dell’islam e patria dei due luoghi santi più importanti per i musulmani, La Mecca e Medina. È verso La Mecca che i musulmani rivolgono i loro volti in qualsiasi parte del mondo si trovino, rivolgendosi in tal modo verso il Volto del Dio Onnipotente; è in questa terra che milioni di musulmani giungono per il hadj o per l’Humrah.
I nostri Luoghi Santi, siano essi in Terrasanta, a Roma o altrove, così come numerosi santuari sacri in molte parti del mondo, sono sempre aperti per voi – cari fratelli e sorelle musulmani –, per i credenti di altre religioni e per ogni persona di buona volontà, che non professi una particolare religione.
In molti Paesi, anche le moschee sono aperte ai visitatori. Si tratta di un genere di ospitalità spirituale che aiuta a promuovere la conoscenza reciproca e l’amicizia, e contemporaneamente si oppone ai pregiudizi.
Sin dalla Sua nomina a capo della Lega musulmana mondiale, Lei, Eccellenza, ha lavorato indefessamente con grande apertura, zelo e determinazione. Non intendo qui fare l’elenco delle sue numerose iniziative, ma sono consapevole del fatto che Lei sta facendo del suo meglio per rendere noti il nome della sua organizzazione Ràbita e il suo programma proprio per quello che tale nome significa. Il termine arabo ràbita significa “collegamento”. Connota dunque la promozione di rapporti, la costruzione di ponti, concetto caro al Santo Padre Giovanni Paolo II e anche a papa Francesco. Questo è esattamente ciò che Lei sta facendo, non solo tra i musulmani, ma anche con i credenti di altre religioni, in particolar modo con i cristiani.

La religione è quanto di più caro ciascuno abbia. È per questo che alcune persone, se chiamate a scegliere tra l’abbandono della propria fede e la vita, preferiscono rimanere fedeli alla fede, accettando di pagare un caro prezzo: la perdita della propria vita. Sono i martiri di ogni religione e di ogni tempo.
Siamo tutti consapevoli che in una comunità di credenti, anche se vi è un’unica religione, vi sono diversi modi di accostarsi a essa. Per questo in ogni religione vi sono sia elementi radicali, sia, fortunatamente, persone sagge. I radicali, i fondamentalisti o gli estremisti possono essere persone zelanti, ma che purtroppo hanno deviato da una comprensione sana e saggia della propria religione. Inoltre, essi considerano quanti non condividono la loro visione della religione come credenti non autentici, come miscredenti, kuffâr (infedeli). Questi infedeli devono “convertirsi” o essere eliminati, in modo tale da preservare la purezza della religione. Questi fratelli e sorelle deviati possono passare facilmente dal radicalismo alla violenza, incluso il terrorismo, in nome della religione. Tali persone sono convinte, o lo sono divenute tramite lavaggio del cervello, che stanno servendo Dio! La verità è che stanno solo facendo del male a loro stesse, distruggendo altri e danneggiando l’immagine della loro religione e quella dei loro confratelli. Tali persone hanno bisogno della nostra preghiera e del nostro aiuto per tornare alla ragione, alla normalità e a una comprensione retta della religione.
Sia noi cristiani che voi musulmani amiamo la nostra religione e desideriamo chiamare altri ad abbracciarla. Lo consideriamo un dovere religioso. Per i cristiani si tratta della missione o dell’evangelizzazione; per i musulmani, del da’wa. L’ordine coranico – «chiama al sentiero del tuo Signore con saggezza e la buona parola» (16, 125) – è una regola che i cristiani possono accettare. Tale regola esclude un certo tipo di atteggiamenti e di pratiche e ne impone altri: è l’etica della missione. Il nostro comune accordo su tale etica è di primaria importanza per rapporti rispettosi e pacifici.
Ciò che deve essere escluso dal da’wa e dalla missione è il tentativo di imporre ad altri la propria religione: essa può essere proposta, ma non imposta, e quindi accettata o rifiutata. La minaccia rientra nella categoria dell’esercizio della violenza per ottenere conversioni. La sura coranica «non c’è costrizione nella religione» (2, 256) è fondamentale per la libertà di coscienza e religione.

Se siamo d’accordo nel bandire la costrizione nelle questioni religiose, un’altra regola è quella di non “comprare” conversioni, offrendo denaro o privilegi, come lavoro, promozioni, sussidi allo studio. Per questo, accordare aiuti umanitari in cambio della religione è contrario all’etica e deve essere evitato. Una persona bisognosa deve essere aiutata da un credente per amore di Dio li-wajh Allah e per senso di umanità.
Un altro tema su cui dobbiamo trovare accordo è quello di avere regole comuni per la costruzione di luoghi di culto. È uno dei temi su cui più si è dibattuto in passato tra le nostre due comunità. Un edificio di culto deve rispondere al bisogno reale di una data comunità religiosa di avere un luogo appropriato dove riunirsi per la preghiera comune. La costruzione di edifici di culto deve essere in armonia con la struttura urbanistica e rispettare le giuste leggi degli Stati in merito alla loro concezione urbanistica. In questo senso, le religioni non sono al di sopra della legge, ma devono sottostare a essa. Tutte le religioni devono essere trattate in modo paritario, senza discriminazioni, poiché i loro fedeli, insieme ai cittadini che non professano alcuna religione, devono essere trattati alla pari.
La “piena cittadinanza” per tutti è un obiettivo di tutti i Paesi del mondo, che diventano sempre più interreligiosi e interculturali. In tal modo, sarà chiaro che i credenti, tutti i credenti, sono anche cittadini. Non cittadini o credenti, ma cittadini e credenti.
Le “regole” e i principi che ho proposto mi sembrano adeguati. Ciò che è giusto rende credibili noi e la religione alla quale apparteniamo. Doppie norme, come noi tutti sappiamo, danneggiano l’immagine di una persona, di una comunità, di un Paese e di una religione. Inoltre, se non eliminiamo i doppi standard dal nostro comportamento di credenti, di istituzioni e di organizzazioni religiose, incrementeremo, certo senza rendercene conto, l’islamofobia o la cristianofobia. Da un punto di vista positivo, la regola d’oro presente nell’islam, nel cristianesimo e anche in altre religioni suggerisce di trattare gli altri come vorremmo essere trattati noi.
Negli ultimi cinquant’anni molti ostacoli sono stati superati, come per esempio la distinzione tra proselitismo e missione. La dimensione della testimonianza e della preghiera comune è più presente. Di fronte alla crisi culturale che ha trasformato il mondo e al venir meno dei punti di riferimento, si è verificato il ritorno dell’irrazionale. In tale contesto, il dovere dei leader spirituali è questo: evitare che le religioni siano a servizio di un’ideologia. Un altro dovere dei leader religiosi è l’educazione: questo è un obbligo. Dobbiamo essere pedagoghi e anche capaci di discernimento. L’onestà ci obbliga a riconoscere che alcuni dei nostri seguaci credenti, per esempio i terroristi, non si comportano correttamente.

Il terrorismo è una minaccia permanente, per questo dobbiamo essere chiari e non cercare mai di giustificarlo con motivazioni religiose. Riteniamo che ciò che i terroristi vogliono dimostrare è che non è possibile vivere insieme. Noi crediamo l’esatto contrario! Dobbiamo evitare l’aggressione, l’ignoranza e la denigrazione delle altre religioni. Il pluralismo religioso è un invito a riflettere sulla fede, perché ogni vero dialogo interreligioso inizia con la proclamazione della fede di ciascuno. Non diciamo che tutte le fedi sono uguali, ma che tutti i credenti, tutti coloro che cercano Dio e tutte le persone di buona volontà senza alcuna affiliazione religiosa, hanno eguale dignità. Ogni persona deve essere lasciata libera di abbracciare la religione che preferisce. Ciò che minaccia tutti noi non è lo scontro delle civiltà, ma lo scontro delle ignoranze e dei radicalismi. Ciò che minaccia il vivere assieme è anzitutto l’ignoranza; per questo, incontrarsi, parlarsi, conoscersi, costruire qualcosa assieme è un invito all’incontro con l’altro, che significa anche scoprire noi stessi.
Per questo, uniamo i nostri sforzi, così che il Dio che ci ha creati non sia motivo di divisione, ma di unità. A tale proposito, è con gratitudine a Dio Onnipotente e con gioia che il Pontificio Consiglio guarda agli sforzi che Ràbita sta facendo per avere dei rapporti positivi e costruttivi con i credenti delle altre religioni, in special modo con i cristiani. Noi incoraggiamo e sosteniamo tali sforzi per il legame religioso e spirituale che esiste tra noi, per l’importanza numerica di musulmani e cristiani nel mondo, e anche perché essi vivono insieme nella maggior parte dei Paesi. Dobbiamo scegliere tra rapporti pacifici e amichevoli, o, Dio non voglia, rapporti conflittuali. La pace nel mondo dipende in gran parte dalla pace tra cristiani e musulmani.
La sottoscrizione di una Dichiarazione di Intenti tra Ràbita e il Pontificio Consiglio è un passo significativo del cammino di fraternità, amicizia e collaborazione nel quale siamo fermamente impegnati. Dio benedica i nostri sforzi tesi alla Sua maggior gloria e al bene dei musulmani e dei cristiani e dell’intera umanità.