Massimo Borghesi

Il pensiero di Bergoglio

Con una biografia “intellettuale”, il filosofo Massimo Borghesi spalanca la ricchezza della formazione del primo Pontefice latinoamericano. E risponde a chi crede che non sia «all’altezza» dei parametri culturali europei (da "Tracce")
Davide Perillo

Una marea di libri, articoli, saggi. E quattro registrazioni audio arrivate direttamente dal Papa, «con straordinaria cortesia, in risposta a un plesso di domande che gli avevamo fatto pervenire». Massimo Borghesi, docente di Filosofia morale all’Università di Perugia, ci ha lavorato per mesi. E il risultato è un volume di cui c’era bisogno, perché offre risposte a tante domande aperte ancora oggi, a quasi cinque anni dall’elezione di Francesco: Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale (Jaca Book).
Uno sguardo d’insieme al background del primo Pontefice latinoamericano e gesuita, che ne passa in rassegna gli studi e la vocazione; gli autori di riferimento (noti, come De Lubac, Guardini, Von Balthasar, Fessard e Methol Ferré, o meno noti al grande pubblico europeo, come Lucio Gera o Amelia Podetti) e il contesto storico in cui è cresciuto (l’Argentina peronista e poi sotto regime militare degli anni Settanta-Ottanta). E che finisce per fare giustizia di tante riduzioni a cui, in maniera più o meno consapevole - e spesso maliziosa -, vengono confinati gesti e parole di Francesco che spiazzano.
Per molti, questo Papa è «troppo argentino» quando parla di periferie, poveri e fede del popolo. «Troppo a sinistra» quando mette l’accento sull’economia dello scarto o l’ecologia umana. «Troppo buonista» quando insiste sulla misericordia anziché sulla verità... In una parola (quando va bene), «troppo ingenuo». Parlerà pure una lingua semplice e comprensibile a tutti, ma per i critici che lo guardano «come quei dottori della Legge che si chiedevano se potesse mai venire qualcosa di buono da Nazareth», osserva con ironia Guzmán Carriquiry, vicepresidente della Commissione pontificia per l’America latina, nella sua acuta e bellissima “Premessa”, il suo pensiero non sarebbe «all’altezza dei parametri culturali europei».
Ecco, questa “biografia” dice l’opposto. Il bagaglio intellettuale di Bergoglio è ricchissimo. Ma pesca in un tesoro che conosciamo ancora poco, e che Borghesi ha il grande pregio di mettere davanti a tutti, gioiello per gioiello.

Come è nato questo libro?
Da una duplice sollecitazione. Da un lato, appunto, la provocazione dei critici del Papa i quali spesso non esitano ad accusare Francesco di non avere la preparazione intellettuale per rivestire l’Ufficio petrino. Un’accusa venata di presunzione e di snobismo europeo verso la cultura sudamericana. Ma la critica, ed è il secondo motivo del mio interesse, nasce, in realtà, da una profonda ignoranza riguardo alla formazione ideale di Bergoglio. Avevo letto, infatti, gli scritti della seconda metà degli anni Settanta, quando Bergoglio era giovane Provinciale dei gesuiti argentini, e ne avevo tratto la forte impressione di un pensiero originale. Bergoglio utilizzava, per giudicare l’operato della Compagnia e della società, un modello “polare”, antinomico, per il quale la Chiesa appariva come complexio oppositorum. Era un chiaro paradigma filosofico. Quello che sarebbe poi rifluito nella sua tabella delle tre coppie degli opposti e dei “quattro principi” utilizzata anche nella Evangelii Gaudium. Stranamente nessuno studioso si era impegnato nello studiare la genesi di tale schema.

Bergoglio seminarista

A questa genesi appartengono nomi noti anche tra noi: De Lubac, Guardini, Von Balthasar...Qualcuno ha messo addirittura in discussione che Bergoglio li abbia studiati a fondo, lei - testi alla mano - dimostra il contrario. Ma che cosa ha preso da ognuno di loro?
Sì, in effetti Sandro Magister, per un chiaro pregiudizio contro il Papa, aveva dubitato che Guardini avesse lasciato il segno. Salvo poi ricredersi... In realtà tanto Guardini, sul quale doveva vertere la tesi di Dottorato del 1986, quanto De Lubac concorrono nel precisare il pensiero “antinomico” di Bergoglio: l’idea che il cattolicesimo rappresenti, nel mondo, una unità soprannaturale che unifica gli opposti senza annullarli, mantenendoli in una sospensione “tensionante”. L’unità impedisce che gli opposti divengano “contraddittori”. Quando ciò accade siamo di fronte ad una visione manichea, ogni dialogo diviene impossibile. Quanto ad Hans Urs von Balthasar, la sua presenza diventa sensibile, nella riflessione del cardinal Bergoglio, a partire dalla fine degli anni Novanta. L’idea che il Vero ed il Bene possano manifestarsi attraverso il Bello, tramite l’“attrattiva” e il fascino di una testimonianza, diviene un punto centrale della sua prospettiva missionaria. Un punto che, peraltro, si chiarisce in lui anche attraverso la lettura dei testi di don Luigi Giussani. Grazie ad essi divengono sensibili, in Bergoglio, un insieme di concetti chiave e di immagini: incontro, stupore, sequela, esperienza, l’incontro di Gesù con Giovanni e Andrea come modello... Rifluiscono nella sua predicazione tutte le più note categorie dell’esperienza educativa di don Giussani. Sono categorie che modulano il grande documento della Chiesa latinoamericana di Aparecida (2007), elaborato sotto la guida del futuro Papa.

C’è un nome che pesa anche sulla lettura che il giovane Bergoglio fa dello stesso Ignazio, e cioè Gaston Fessard.
Sì, questa è una delle più rilevanti scoperte contenute nel volume. Quando ho iniziato a scriverlo non avevo chiara la genesi del pensiero di Bergoglio, da dove traesse la sua visione “polare” della realtà. Questa non parte da Guardini, la cui “filosofia degli opposti” viene scoperta dal futuro Pontefice solo nel 1986. La lettura dei testi non aiutava a chiarire la questione. Per questo ho posto al Papa, tramite un amico comune, quelle domande a cui ha risposto con i file audio, con un’apertura ed una sincerità senza preclusioni. E così l’anello mancante è venuto alla luce: Gaston Fessard, uno dei più grandi intellettuali gesuiti della seconda metà del Novecento, amico stretto di Henri de Lubac. È l’autore che è all’inizio del pensiero di Bergoglio. La lettura de La dialectique des “Exercices spirituels” de saint Ignace de Loyola di Fessard convince il giovane Bergoglio che alla radice della spiritualità ignaziana c’è una tensione tra Grazia e libertà, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra contemplazione ed azione. Il pensiero cristiano non è statico, è “tensionante”.

Ma in che senso questo è anche «un pensiero della riconciliazione»? Perché il rischio è di darne un’interpretazione irenica, buonista...
L’unità di cui parla Bergoglio è, appunto, una unità in tensione che non annulla gli opposti. È una unità che si cala nel dramma della storia. Lui non è un conservatore, certo, ma non è nemmeno un progressista ingenuo. È uno che vede lucidamente il quadro tragico nel mondo di oggi, che perde velocemente le dighe protettive poste dopo la Seconda Guerra mondiale. È il mondo della «terza guerra mondiale a pezzi», che non crede più agli organismi internazionali e torna alla corsa per il nucleare. Francesco è preoccupato. L’azione della Chiesa si inserisce come un cuneo tra le parti, punta a mediare, ad aprire ponti. Così è stato per la Siria, quando gli Usa volevano entrare in guerra; così per Cuba, per l’incontro con il Patriarca di Mosca, per il suo incontro al Cairo con ortodossi e musulmani, in Centrafrica, in Colombia.

Ma in fondo non è l’et-et cattolico? Il cattolicesimo, se è vivo, è di per sé sintetico...
Certamente. Fessard affermava, riprendendo san Paolo, che in Cristo trova soluzione la triplice dialettica della storia: schiavi-liberi; uomini-donne; giudei-pagani. Il cristianesimo unisce quanto sul piano naturale risulta impossibile. Il modello di Bergoglio è l’incontro tra ispanici ed indigeni in America Latina. Un incontro drammatico, a tratti cruento, ma alla fine reale. L’inculturazione cristiana, l’unità della pluralità, si è storicamente realizzata. La Madonna india di Guadalupe è il segno di questa integrazione.

Nel suo percorso, lei va alla radice di uno degli aspetti più sorprendenti del pensiero del Papa: i famosi principi enunciati nella Evangelii Gaudium. Il tempo è superiore allo spazio, l’unità al conflitto, la realtà all’idea, il tutto alla parte. Per lui sono fondanti, e questo lo stiamo vedendo. Ma al tempo stesso ci spiazzano. Da dove nascono? E perché sono così importanti?
Sorgono dall’esperienza storica, dal contesto in cui è vissuto, fatto di contrasti durissimi. La sua Argentina si trovò per anni lacerata tra gli estremi: il regime militare da una parte e il messianismo rivoluzionario dei guerriglieri dall’altra. Con la Chiesa in mezzo, «in ostaggio», a ondeggiare tra connivenza col potere e teologia della liberazione filo-marxista. I quattro principi sanciscono, da un lato, il valore dell’unità del popolo rispetto ai progetti politici tesi a dividerlo, a strumentalizzarlo, ad usarlo come carne da cannone. La Chiesa sta dalla parte del popolo, del pueblo fiel, che crede, ama, soffre. Dall’altro sanciscono il primato della realtà rispetto ad ogni ideologia, di destra o di sinistra.

In questo contesto, lei parla molto di altri autori, meno conosciuti da noi, ma decisivi. Amelia Podetti, per esempio, filosofa argentina: il Papa dice che l’intuizione delle periferie l’ha presa da lei.
Vero. Per lei, il mondo cambia di prospettiva se lo si osserva dai bordi, dalle faglie, dalle fratture. Chi sta al centro delle metropoli o degli imperi vive in una bolla, non percepisce il dramma della storia, le ingiustizie, né i terremoti che sono all’orizzonte. La visione evangelica di Francesco parte dalle periferie, dai poveri del Vangelo. Il che non significa che sia terzomondista. La polarità tra globalizzazione e localizzazione è uno dei punti portanti del suo pensiero.

Altro autore decisivo: Alberto Methol Ferré, filosofo uruguaiano. Qual è stata la sua influenza?
Molto grande. Methol Ferré è il più grande intellettuale cattolico latinoamericano della seconda metà del Novecento. Il suo tomismo dialettico è influenzato, al pari di Bergoglio, da Fessard. I destini di Methol e di Bergoglio si intrecciano a partire dalla Conferenza di Puebla del 1979. Progressivamente Methol diviene, insieme a Fessard-Guardini-Podetti, il punto di riferimento intellettuale di Bergoglio. La riflessione di Methol Ferré, come mostro nel volume, deve molto ad un ripensamento originale della filosofia di Augusto del Noce. Lui e Bergoglio condividevano l’idea della Patria Grande latinoamericana e, soprattutto, la Teología del Pueblo, la versione argentina della Teologia della liberazione elaborata da Lucio Gera, Rafael Tello, Justino O’Farrel, Juan Carlos Scannone. Per la Teologia del Pueblo valeva l’opzione preferenziale per i poveri operata dalla Chiesa con Medellín e Puebla, la valorizzazione della religiosità popolare criticata dalle posizioni moderniste, il rifiuto netto dell’ideologia marxista.

Ma in che senso, allora, questo Papa è «sudamericano»? Cosa vuol dire davvero, al di là delle riduzioni?
Il Papa è sudamericano nel profondo. Lo è, innanzitutto, come cattolico che ha vissuto la stagione del grande rinnovamento della Chiesa dell’America Latina con i suoi appuntamenti fondamentali: Medellín (1968), Puebla (1979), Aparecida (2007) che lo ha visto diretto protagonista. Per la sua formazione, però, è anche profondamente europeo. I gesuiti della Scuola di Lione, de Lubac e Fessard, Romano Guardini, Karl Grumbach, il Michel de Certeau studioso della mistica, Hans Urs von Balthasar, sono gli autori fondamentali che concorrono alla sua formazione. Sono autori europei.

Verità e misericordia, libertà e grazia... Un pensiero sintetico come quello di Bergoglio come unisce i due momenti?
Nella forma della dialettica polare. Il Papa, contrariamente a quello che affermano i critici, non pecca di “misericordismo”, non è un fautore del primato della prassi sulla dottrina. La Misericordia è il manifestarsi storico, puntuale, della Verità. La Verità è sempre universale, la Misericordia è la sua declinazione particolare che implica il discernimento del caso per caso. Siamo di fronte ad una tipica antinomia.

Si può dire che Francesco in qualche modo «impari dalla storia», per usare un’espressione cara a don Giussani, o è una forzatura?
No, è proprio così. Lui stesso, chiarendo il suo metodo ne indica una triplice scansione: ispirazione-concetto-realtà. Bergoglio parte da un’intuizione la quale deve mediarsi attraverso una riflessione per poi paragonarsi con la realtà. Uno dei suoi principi afferma che la realtà è superiore all’idea. È un principio di derivazione tomista. Il rapporto con la realtà, e quindi con la storia, è ineliminabile. Diversamente ogni pensiero, anche quello “cristiano”, tende ad ossificarsi, a divenire ripetitivo, dogmatico nel senso negativo del termine. C’è un’annotazione di Francesco, nella sua intervista a padre Antonio Spadaro per la Civiltà Cattolica, che è molto significativa: «Quando una espressione del pensiero non è valida? Quando perde di vista l’umano o quando addirittura ha paura dell’umano o si lascia ingannare su se stesso. [...] Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come l’uomo si comprende oggi, per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento».

E che cosa è questa “genialità” da recuperare?
Il pensiero cristiano diventa geniale quando si muove nella tensione polare tra immersione nella carne del mondo e apertura “mistica” al Dio sempre più grande, quando rifugge dall’autoreferenzialità, dal clericalismo, dal mondo chiuso di uno spiritualismo ovattato e asfittico. Per Bergoglio, come per De Lubac, il peccato più grande è la “mondanità spirituale”, il moralismo di coloro per cui Dio è lo specchio delle proprie sicurezze e delle proprie ambizioni.