La Chiesa e il dilemma di essere uomini
Il dualismo tra istituzione e vita, la nascita dei movimenti, il post-Concilio. Figure e passi del Sessantotto ecclesiale, dove la battaglia decisiva non è tra progressisti e tradizionalisti, ma sull'avvenimento (Da Tracce, settembre 2018)«Un’urgenza di autenticità del vivere dettata da un’irrequietezza», questa l’origine del Sessantotto nel giudizio di don Luigi Giussani. Origine presto tradita nell’accasamento ideologico che tranquillizzò intellettualmente l’irrequietezza e la trasformò in rivolta e lotta per il potere. «Rovesciamo tutto e costruiamo un mondo meno brutto», canta Claudio Chieffo quell’anno.
Per Joseph Ratzinger, «desiderosi di migliorare la storia, di creare un mondo di libertà, di uguaglianza e di giustizia, questi giovani si convinsero di aver trovato la strada migliore nella grande corrente del pensiero marxista».
Nella Chiesa, il Sessantotto non fu diverso, solo iniziò prima. L’esigenza di rinnovamento si manifestò negli anni Cinquanta.
Valgano le testimonianze di due sacerdoti che iniziano allora l’insegnamento. Nel 1951, Ratzinger è professore di religione a Bogenhausen. In Ultime conversazioni ne parla come di «una situazione drammatica»: «Avevo davanti quaranta ragazzi e ragazze che seguivano diligenti la lezione, ma sapevo che a casa ascoltavano discorsi antitetici. “Ma mio papà mi dice – confessavano – che non devo prendere tanto sul serio queste cose”. Si percepiva che l’istituzione teneva, ma il mondo reale si era già allontanato molto dalla Chiesa». Nel 1952, viaggiando in treno, Giussani ha una serie di incontri fortuiti con studenti liceali e rimane colpito dal fatto che «molti giovani sono ignoranti in fatto di religione, molti altri, pur sapendo, non sono convinti». Eppure erano gli anni delle grandi adunanze in Piazza San Pietro, delle chiese piene, dei matrimoni religiosi con tanti figli, dei successi elettorali della Dc sostenuta dall’Azione Cattolica.
Dalla percezione di questo dualismo, una situazione in cui l’istituzione ecclesiale è avvertita come staccata dalla vita e dalle sue esigenze, nasce il moto che porta alla convocazione del Vaticano II. Un moto di cambiamento verso il «progresso»: «All’epoca – confessa Benedetto XVI – essere progressisti non significava ancora rompere con la fede, ma imparare a comprenderla meglio e viverla in modo più giusto, muovendo dalle origini. Allora credevo ancora che tutti noi volessimo questo. Anche progressisti famosi come Lubac, Daniélou e altri avevano un’idea simile».
Il dualismo era conseguenza dell’opinione ormai diffusa che la religione riguardasse la sfera soggettiva e privata e a questa dovesse limitarsi, nulla potendo dire sulla storia, sui processi e sulle grandi decisioni che in essa vengono prese. Il Concilio (1962-1965) sostanzialmente riannodò il rapporto della Chiesa con il mondo, liberò la fede dall’angustia del privato nel quale era stata relegata e riaffermò che essa ha a che fare con l’intera esistenza.
Che cosa successe dopo? Il post-Concilio. Una tautologia? No, un fenomeno distinto e distante dal Concilio, una sua particolare lettura favorita da teologi che hanno goduto della simpatia dei media. Al suo interno si colloca il Sessantotto ecclesiale.
Secondo questa interpretazione, l’ermeneutica della discontinuità, il Concilio segna un punto di rottura nella Chiesa. C’è un prima e c’è un dopo, una Chiesa pre-conciliare e una Chiesa post-conciliare. La prima fatta di istituzioni, curia romana, dottrina, tradizione, etica fissata soprattutto su sesto e nono comandamento, e connotata dall’arroccamento e dalla chiusura al mondo; la seconda di Comunità di base, carità come impegno sociale, etica improntata a quinto e settimo comandamento, apertura al mondo e lotta per la liberazione degli oppressi.
Problema: i documenti conciliari non danno sostegno a questa lettura. Risposta: va riscoperto lo «spirito del Concilio» che i testi già tradiscono. Fu così che, secondo Benedetto XVI, «si concesse spazio a ogni estrosità».
Nacquero in quegli anni le Comunità cristiane di base, i Cristiani per il socialismo, ci furono esperienze di “autogestione dei Sacramenti” e anche esperienze missionarie come quelle dei preti operai francesi presero una deriva ideologica. Ebbe fortuna mediatica la Teologia della liberazione, esperienza peraltro ramificata e con aspetti anche positivi, ma il movimento di fondo che essa determinò fu, secondo Ratzinger, la sperimentazione di «un nuovo connubio tra Chiesa e mondo all’insegna della rivoluzione», «sembrò indicare alla fede la nuova direzione da prendere per tornare a essere incisiva nel mondo».
L’analisi marxista della società, lo storicismo, il primato della prassi, insomma la rivoluzione che Marx aveva pensato atea si riempie di afflato religioso. Gesù diventa l’incarnazione di tutti gli oppressi e il “primo dei socialisti” che chiama alla rivoluzione. Molti teologi, nell’ansia di stare al passo coi tempi, per giustificare un ruolo della fede in questa sua indistinzione con il mondo, autolimitandola a sempre più debole ispirazione valoriale, si addentrano in «artifici interpretativi» e «funambolismi» che per Ratzinger dovrebbero farci ammettere onestamente che «siamo proprio alla fine».
Hans Urs von Balthasar su Communio (1972) scrive: «In nessun modo bisogna liberare il cristianesimo dal campo di tensione. Se esso non è universalmente (cattolicamente) rilevante, allora cade, con tutti i suoi discorsi (...), nel letamaio dei rifiuti religiosi. Ma per essere universalmente rilevante deve, proprio contro un orizzonte qualunquistico, essere qualcosa di particolare, determinato, unico».
Severo quasi oltre ogni possibilità di appello è Paolo VI, il Papa che ha guidato il Concilio: «Con il Vaticano II ci aspettavamo la primavera e invece è venuto l’inverno».
L’ermeneutica della rottura, e la prassi che ne è conseguita (in America Latina, ma anche nel terrorismo nostrano i più tragicamente coerenti arrivarono sino alla lotta armata), come ogni forzatura, ha suscitato una reazione. Un fallo di reazione, non un’alternativa credibile: il tradizionalismo, la cristallizzazione del cristianesimo nelle formule dottrinarie, l’ancoraggio a forme rituali, la sottolineatura burocratica del centralismo romano e, di fatto, il rifiuto del Concilio, sino agli estremi del sedevacantismo.
Per anni nel dibattito interno e sui media l’interpretazione del Concilio, con i riflessi nel rapporto con il potere politico e culturale, è stata “la” questione della Chiesa. Benedetto XVI il 22 dicembre 2005 descrive questo “litigio” con le parole di san Basilio dopo Nicea: «Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede». Ma, aggiunge, nel tempo «l’ermeneutica della riforma», del rinnovamento nella continuità, «silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti».
Possiamo tentare di riassumere i testi del Concilio in quattro titoli. La rivelazione è l’avvenimento di una persona (Dei verbum), che vive in una realtà storica (Lumen gentium), che svela l’uomo pienamente a se stesso (Gaudium et spes). Il quarto è la vera novità, l’assunzione, dopo una gestazione travagliata durata secoli, del valore della libertà: non c’è verità senza libertà (Dignitatis humanae).
È il focus che ci riporta al Sessantotto, il cui messaggio ultimo è: non c’è verità ma solo libertà. I tradizionalisti ribattono: non c’è libertà, solo verità. La Chiesa dice: non c’è verità se non attraverso la libertà.
È con questa strumentazione che va affrontato anche il deserto attuale. Ecco la pianta fiorita dopo l’inverno ideologico, dopo la riduzione di Gesù Cristo all’uomo storico Gesù, sorvolando sulla sua divinità, e dopo lo scisma lefebvriano che impugna la Dignitatis humanae.
La semina però avviene prima del Concilio, e i semi hanno nomi e cognomi, quelli dei grandi teologi del ’900: Romano Guardini, Henri De Lubac, Jean Daniélou, Von Balthasar, Ratzinger. Tra loro e in dialogo con loro, Luigi Giussani, non solo grande educatore ma uomo di pensiero decisivo per la seconda metà del secolo scorso, sulla cui statura teologica si è incentrato un recente convegno internazionale a Lugano.
La sua figura apre lo sguardo sull’altro grande fatto anticipatore del rinnovamento conciliare: la nascita, negli stessi anni, Cinquanta e Sessanta, dei movimenti ecclesiali. Per san Giovanni Paolo II «uno dei doni dello Spirito al nostro tempo».
Qual è il tratto comune tra i due avvenimenti? La scelta della via antropologica centrata su Gesù Cristo. Sarà il contributo fondamentale del pontificato wojtyliano, così sintetizzato dal successore: «L’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo». «La Chiesa si risveglia nelle anime», diceva Guardini. «La Chiesa rinasce nella persona», traduce questa linea antropologica che esalta sia la domanda dell’uomo sia l’incontro con una Presenza che cambia la vita.
La battaglia decisiva non è: progressisti-tradizionalisti. La grande questione rimessa al centro è l’idea di persona e della sua libertà attraverso la teologia dell’avvenimento. L’alternativa per la Chiesa – soprattutto dopo il 1989, anno simbolico del crollo dell’ideale marxista – è tra un “cristianesimo anonimo” teorizzato già presente al mondo attraverso i valori di cui l’uomo è capace per via della “grazia” che gli è già data idealmente con la sua natura – come scrive Massimo Borghesi – e un cristianesimo per cui la Rivelazione è invece una novità assoluta, inimmaginabile prima, per cui Dio è una presenza nella storia che sceglie i suoi (elezione) e attraverso loro va verso tutti gli uomini. Nella prima ipotesi, nel mondo moderno può sussistere solo un cristianesimo generico che di volta in volta ha bisogno di aggettivi che lo qualifichino mutuati dalla cultura del tempo in cui vive: per il socialismo, liberale, democratico... Von Balthasar denuncia la deriva spiritualista di un impegno sociale che ha «origine solo da un’ispirazione cristiana» e ne individua i responsabili proprio nei propugnatori del “cristianesimo anonimo”, realizzato il quale la Chiesa resterebbe solo un’istituzione gerarchica di mera organizzazione funzionale. Invece «il confronto vero (con i movimenti di libertà dei tempi moderni) ci sarà solo quando il cristiano s’impegnerà teoreticamente a mostrare che l’auto-apertura di Dio in Gesù è l’invito a entrare nello spazio di libertà assoluta, nel quale solo si può dispiegare la libertà umana».
«Los hombres nacen para ser libres», il Sessantotto parte dalla promessa di realizzare l’io nella libertà ma, affidandola al cambiamento futuro delle strutture economiche, produce il frutto della grande spersonalizzazione. La domanda resta: dov’è l’io? Dove la sua verità e la sua libertà? Non differentemente da quella originaria di Gesù: che darà l’uomo in cambio di se stesso?
A questa origine, non ad altre mitizzate, intende riportare la Chiesa Paolo VI, nel 1968, con la proclamazione del Credo del popolo di Dio.
Nella Chiesa c’è confusione per la pubblicazione del Catechismo olandese. La commissione cardinalizia che l’esamina dice che era «mirato a sostituire all’interno della Chiesa un’ortodossia a un’altra, un’ortodossia moderna all’ortodossia tradizionale». Sostenuto da teologi e Vescovi solleva dubbi sul peccato originale, la Messa come sacrificio, la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, la creazione dal nulla, il Primato di Pietro, la verginità di Maria, l’Immacolata concezione e l’Assunzione. Nel Credo di Paolo VI trovano tutti risposta. Ferma, lucida e lungimirante: una professione di fede che, contro la categoria di popolo mutuata dal marxismo, ridefinisce l’identità del popolo di Dio rispondendo idealmente alla domanda che l’anno prima il professor Ratzinger poneva ai suoi studenti: che cosa affermiamo quando diciamo «io credo»?
Nella Chiesa la risposta, a lungo trascurata, venne in quello stesso anno non solo come riaffermazione del cuore della fede cristiana, ma anche come coscienza del dover offrire agli uomini d’oggi un’Introduzione al cristianesimo che prendesse sul serio le loro domande e il cristianesimo stesso. La rilettura di quel libro colpisce per la profetica attualità.
Il cristianesimo – dice – non è una «religione» bensì una «fede», alla religione può bastare l’ossequio del rito o l’osservanza dei precetti, la fede richiede la persona, implica il «trasformare lo schematico io della formula del Credo nell’io personale in carne e ossa». Dice che la professione di fede non è l’assenso a una dottrina, ma la risposta a uno che chiama; che ci si concentra sul messaggio di Cristo, ma invece è la persona di Gesù a essere importante. Dice dello «scandalo» del «positivismo cristiano» perché la fede non ha a che fare soltanto con l’eternità, ma «col Dio nella storia, col Dio fattosi uomo», con il «restringimento di Dio a un unico punto della storia», come «sulla punta di un ago». «Ecco tutta la profondità del problema della fede cristiana, come oggi va affrontato».
Non ci si può accontentare di «un’interpretazione del cristianesimo che non urti più nessuno». Perché «un cristianesimo scaduto a vuota interpretazione denota una mancanza di sincerità verso gli interrogativi dei non cristiani, il cui “forse non è vero” ci deve assillare tanto seriamente quanto noi desideriamo che assilli loro il “forse è vero” dei cristiani» perché «non si sfugge al dilemma di essere uomini». E forse è questo dilemma il luogo della comunicazione, del dialogo. «Soyez réalistes, demandez l’impossible», si leggeva sui muri di Parigi nel Maggio francese. Siate realisti, chiedete l’impossibile. Una domanda religiosa. Che non si affida ad analisi, teoria, prassi, etica, ma desidera qualcosa “oltre” la materia che la vita di ogni giorno può offrire: l’impossibile, appunto. Ma l’impossibile è il campo di azione di Dio.