Matteo Severgnini

Diario dal Sinodo/1. «Tu, Matteo, che cosa cerchi?»

Dirige la Luigi Giussani High School di Kampala, Uganda, e dal 3 ottobre seguirà i lavori come uditore. Ci racconterà la vita a fianco dei padri sinodali. «Il discernimento vocazionale? È un tema di conoscenza. Come accadde per Giovanni e Andrea»
Matteo Severgnini

Sto partendo da Kampala, dove dirigo da alcuni anni la Luigi Giussani High School. Domani sarò a Roma per partecipare al Sinodo su “Giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Quando, mesi fa, mi hanno chiesto la disponibilità a prendere parte a questo incontro così importante ho risposto subito di sì, ma specificando che avevo un’idea molto vaga di che cosa davvero fosse un Sinodo, e che non sapevo quale contributo avrei potuto dare. «Non ti preoccupare», mi ha detto don Carrón: «Sarà una grande occasione per incontrare persone di grande spessore umano e far conoscere il movimento. E poi sarà l’opportunità per capire meglio la tua vocazione». Messa così, le mie obiezioni cadevano. Rimaneva soltanto un confronto con i presidi della scuola che dirigo, perché si trattava di restare a Roma per un mese. Mi hanno risposto: «Se il Papa ti chiama che obiezione possiamo farti? Se può essere un’occasione per te lo sarà certo anche per noi». Non avevo più scuse. Dunque, eccomi qui.

In queste settimane ho letto il documento preparatorio della Segreteria del Sinodo. Ciò che mi ha più colpito è la sfida che la Chiesa ha deciso di fare a se stessa, in un momento così difficile della sua storia: mettere di nuovo la sua proposta davanti al cuore dei giovani, perché è da loro che attende il vero rinnovamento. È una sfida innanzitutto di conoscenza. Lo si capisce dall’esempio che papa Francesco fa nella sua lettera ai giovani, quando cita la domanda che Gesù fa a Giovanni e Andrea sulla riva del Giordano: «Che cosa cercate?». È un interrogativo che ha a che fare con la conoscenza di sé, con la conoscenza di me. Non posso rispondere in modo superficiale. È un’avventura alla scoperta del mio cuore. Solo conoscendo che cosa desidero davvero posso iniziare a riconoscere i segni che la realtà mi mette davanti, ad interpretarli e a prendere una decisione, cioè a dire il mio sì. È esattamente come 2000 anni fa, per i due primi discepoli che seguirono il segno del dito di Giovanni Battista che indicava Gesù. Si sono mossi, sono andati dietro a quell’uomo e hanno preso sul serio la domanda che gli ha rivolto: «Che cosa cercate?». Partecipare al Sinodo, per me, significa trovarmi col cuore alle strette e domandarmi di nuovo: «Tu, Matteo, che cosa cerchi?».

Con i bambini della scuola Luigi Giussani di Kampala

In Africa, come in Europa e dappertutto, il nodo della vocazione è riconoscere che Qualcuno ti sta chiamando. E come si fa? Che cosa aiuta a riconoscere la chiamata? Per ciò che vedo, nella storia della mia vita e vedendo i ragazzi attorno a me, quel che aiuta di più è incontrare adulti che questa chiamata l’hanno stampata sul volto. Persone che vivono nel presente l’essere chiamati, che si sentono chiamati ora. Questo è ciò che spiazza i giovani: vedere uomini e donne che vivono una vita piena, che fanno esperienza del centuplo. Sapere di essere fatti, chiamati e dunque amati permette di abitare la realtà pieni di certezza.
Oggi sempre più spesso si è preoccupati di proteggere i giovani dal confronto con gli altri, che è visto come un rischio da evitare. Invece la vocazione mi sembra il contrario: è nell’incontro con la realtà, è nel confronto con l’altro che io posso conoscermi, capire che cosa desidero e che cosa mi soddisfa davvero.
Non so ancora che cosa mi aspetta a Roma. Domani mi presenterò alla Segreteria del Sinodo dove mi daranno una cartelletta con il materiale utile per questi giorni. Mercoledì 3 ottobre si inizia. L’unica cosa che so è che ci sarà il Papa ad accoglierci.