Milano. Bressan: «Ricominciamo a scrivere la fede sul nostro corpo»
Un Sinodo minore, per la Diocesi ambrosiana, dedicato alla "Chiesa delle Genti". Alla vigilia della pubblicazione del documento finale, il Vicario episcopale e Presidente della commissione sinodale racconta quello che è accaduto«Il documento che presentiamo è la fotografia di un cammino che stiamo facendo come Chiesa ambrosiana. Con molta onestà, realismo e guardando a ciò che sta accadendo intorno a noi». Monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione Sociale della Diocesi di Milano e presidente della Commissione sinodale, illustra «una road map per il cammino futuro, ma già iniziato della nostra Chiesa ambrosiana». E di questo cammino, ecclesiale e personale, sceglie di parlare alla vigilia dell’approvazione del documento prevista per il 3 novembre (che verrà poi consegnato all’arcivescovo Mario Delpini) a conclusione del Sinodo minore promosso dalla diocesi lombarda.
Quali sono i punti emersi durante il Sinodo minore?
Credo che dobbiamo recuperare la forza contemplativa, una posizione che abbiamo perso, che è guardare a tutto ciò che ci circonda. Tutto il corpo della Chiesa deve riprendere a fare questo esercizio costante. Durante i lavori ci siamo resi conto che abbiamo energie non valorizzate, come ad esempio il mondo giovanile. Abbiamo tante comunità di vita consacrata che vengono dall’estero e il rischio più grande che hanno le parrocchie è quello di usarle solo per uno scopo produttivo - per non dire impiegatizio - senza che possano darci, con la loro storia, un contributo reale alla pastorale. O penso per esempio alla ricchezza dei movimenti ecclesiali, che sono un’importante risorsa. O, ancora, alle nuove generazioni di italiani, immersi pienamente nel nostro tessuto sociale. Sono tutte realtà da guardare e con cui iniziare a lavorare per costruire il futuro assieme.
Qual è l’urgenza più grande che deve affrontare la Chiesa ambrosiana?
Dobbiamo ricominciare a “scrivere” la fede sul nostro corpo. Mi spiego. La dimensione ecumenica che stiamo vivendo può essere un grandissimo aiuto. Guardiamo per esempio alla realtà molto presente dei cristiani ortodossi, a come valorizzano la dimensione monastica. Queste comunità - è evidente - riescono a trasmettere la fede alle generazioni più giovani. I loro fedeli cercano la compagnia dei monaci per avere, attraverso la loro fede, uno sguardo nuovo sulla realtà quotidiana. Questo è un aspetto che abbiamo perso. Anche il tema del digiuno, unito a quello della dimensione monastica, è sempre meno presente. In sintesi, si potrebbe dire che abbiamo perso il concetto di divinizzazione del nostro quotidiano, di vivere e rendere sacro il nostro fare.
Lei parla di un cambiamento possibile anche grazie all’incontro con altre realtà fuori dalla Chiesa cattolica.
Dobbiamo ammettere che in questi anni abbiamo fatto un po’ di fatica a dialogare. Il contesto politico di oggi non ci aiuta, ma la presenza di persone con fedi e culture diverse è un dato di fatto. Dobbiamo dialogare senza perdere la nostra identità. Ma non solo. È tempo di ammettere le nostre responsabilità, cosa che non abbiamo fatto nemmeno nei confronti del Sud del mondo di cui per anni abbiamo abusato. Dobbiamo tornare a occuparci di politica, e cercare, da cristiani, gli strumenti che ci possono aiutare a vivere con maggiore responsabilità il tempo presente.
E per lei che cosa ha significato vivere questo Sinodo e questo tempo ricco di sfide?
Mi ha fatto crescere e maturare. Mi sono accorto di come posso davvero vedere il bene in tutto e in tutti. Ho cominciato a percepire l’altro come mio fratello, anche nella fatica. Ma proprio in questa fatica ho compreso che se non mi lascio guidare da Dio, rimango smarrito. Il mio percorso di fede mi ha permesso di allargare l’orizzonte, e concepire la dimensione di popolo con una visione multiforme. «Milano è la metropoli d’Europa»: questa definizione, che mi venne suggerita dal cardinale Angelo Scola, ha interrogato molto la mia fede e il modo con cui guardavo i problemi di questa città. Ma è solo lo Spirito che ti permette di scrutare nella realtà quotidiana aspetti straordinari in realtà diverse dalla tua.
Qual è il nostro compito in questo cambio d’epoca, così come l’ha chiamato papa Francesco?
Noi siamo chiamati a fare oggi quello che ha fatto sant’Ambrogio quando ariani e cattolici litigavano perché dovevano scegliere il nuovo vescovo. Lui, che si era sempre dedicato al bene di tutti, venne accolto da entrambe la fazioni in un clima di dialogo e di pace. E venne scelto come vescovo quando non era nemmeno battezzato. Poi, da pastore, ha anche recuperato la tradizione, foriera però di doni estremamente nuovi. Imitare il nostro primo vescovo è, secondo me, il nostro grande compito.
Incontro e dialogo: sono queste le due parole chiave?
Per me sì. Anche a dispetto di un certa tendenza di oggi che lo rifiuta. Ma io rimango colpito dalla fede delle comunità ortodosse, e persino dalle mamme musulmane per come educano i loro i figli alla preghiera, con una dedizione rara. Sono fatti che interrogano me, e la mia fede. Dobbiamo ritrovare questa attitudine a contemplare tutto, per riscoprire la bellezza dell’incontro. D’altronde, il Mistero è così grande e la mia identità così limitata, che a volte solo l’incontro con l’altro può davvero illuminarla.