Padre Alberto Caccaro insieme a insegnanti e allievi

Cambogia. Il patto educativo? È l'umano che lo chiede

Padre Alberto Caccaro è missionario del Pime. Dal 2001 è nel Paese asiatico. Ha letto il messaggio di papa Francesco per il Global Compact for Education e ci ha trovato molto della sua avventura. Iniziata traducendo in khmer un libro di don Giussani...
Alberto Caccaro*

Essere missionario in Cambogia ha significato per me, quasi sempre, cominciare da zero. Sono arrivato, di volta in volta, in luoghi in cui non c’era una presenza che mi precedeva. In alcuni casi mi sono trovato a essere il primo sacerdote residente nella regione. Questo è coinciso con l’opportunità di avere carta bianca. Riguardando la mia storia, vedo ciò che papa Francesco invitava a fare già nell’Evangelii Gaudium: innescare processi. Ora, con questo appello per un Patto educativo globale, torna a quell’invito. Per rispondere alla catastrofe educativa, bisogna generare nuovi processi.

Nella mia storia in Cambogia questo si è verificato su due fronti: scuole e ospedali. Sono due realtà in cui si incontra una umanità bisognosa di cura. La vita mi ha portato a fondare nel 2008 il liceo Chomran Vicìe a Prey Veng, nel Sud-Est del Paese, diventato il modello per altre due scuole analoghe. Sono istituti frequentati per il 90 per cento da studenti buddisti.

Tutto è iniziato dall’accorgermi dei ragazzi che avevo attorno e dall’esigenza di andare verso di loro. L’esperienza educativa era, allora, una chiamata costante. In quei ragazzi c’era, per me, la chiamata di Dio. Ho iniziato a provare a rispondere. All’inizio, però, non pensavo a una nuova scuola, ma ad aiuti parziali: borse di studio, ostelli per ospitare gli studenti bisognosi. Ma col passare del tempo, e vedendo la portata delle lacune della scuola pubblica, è sorta in me un’esigenza di totalità.

Ho iniziato a desiderare che quei ragazzi facessero l’esperienza di ciò che don Giussani chiama «introduzione alla realtà totale». È un’espressione che risuona nel messaggio di papa Francesco, quando propone la via di un’educazione integrale. Dice: «Ci serve il coraggio di generare processi che assumano consapevolmente la frammentazione esistente e le contrapposizioni che di fatto portiamo con noi; il coraggio di ricreare il tessuto di relazioni in favore di un’umanità capace di parlare la lingua della fraternità».



Siccome mi trovavo immerso in un contesto buddista e non potevo, per invitare a un’esperienza educativa, far leva sulla fede, avevo bisogno che quella radice fosse viva in me. Prima ancora di pensare alla nuova scuola, ho deciso di tradurre in khmer, la lingua locale, Il rischio educativo. Non perché pensassi che ci fosse un pubblico di lettori, ma perché ero convinto del valore in sé di quel tipo di proposta. Quelle pagine davano voce alla fonte che mi generava. E io volevo partire da lì, non da obiettivi fatti di numeri e risultati misurabili sul campo. L’educatore è memoria vivente della radice che lo genera. Educare è dare accesso a una memoria vivente. I due anni di lavoro per realizzare la traduzione hanno permesso che quel testo si appiccicasse dentro di me.

Le difficoltà a realizzare il nuovo liceo non sono state poche. C’era molta diffidenza negli apparati burocratici del regime. E in tanti casi hanno provato a metterci degli ostacoli. Anche perché, in quel contesto, nessuno aveva mai provato a chiedere le autorizzazioni per una scuola che non fosse dello Stato. Ma dentro le sfide, ciò che teneva desto il sogno della scuola sono state le parole di don Giussani.
Quando la scuola poi l’abbiamo ottenuta, mi sono chiesto: «Come deve essere fatta?». Non poteva essere la proposta di un’accozzaglia di materie, doveva proporre un’idea compiuta di uomo. In essa si doveva respirare un’atmosfera viva. E come fare, in un contesto così diverso? Non potendo comunicare immediatamente la fede, dovevo trasmettere ai ragazzi la vita che era in me. Ho deciso allora, nel fare scuola, di abbandonare per un istante il sostantivo verità, in favore dell’avverbio corrispondente: veramente. Era l’unico modo per proporre a loro un’esperienza vera. Che cosa ha voluto dire? Ho chiesto che la scuola fosse veramente scuola. Che un orario fosse veramente un orario. Che i professori fossero veramente presenti. Che gli esami fossero veramente esami. Insomma, niente scorciatoie. La verità doveva incarnarsi in un’esperienza di vita.

In questa modalità albeggia l’esperienza dell’incarnazione, intesa come qualcosa che accade veramente. Mi ha colpito la frase di Péguy citata da Julián Carrón nella sua introduzione a Il fazzoletto di Veronique: «Perché l’Incarnazione fosse piena e intera, perché fosse leale, perché non fosse limitata o fraudolenta bisognava che la sua storia fosse una storia di uomo». La nuova scuola non poteva essere una finzione, doveva essere un’assunzione reale del destino dei ragazzi. Quell’avverbio doveva essere gravido del sostantivo: verità. Che poi, ci ha costretto a imparare a chiamare le cose con il loro nome. E questo ha generato fiducia, una comunione di destini. È soltanto una storia percorsa insieme che può generare qualcosa. E qui il valore del tempo che, come ricorda sempre papa Francesco, è superiore a quello dello spazio.

Io mi accorgo del valore dell’idea di “patto educativo”, perché è l’umano che lo chiede. Oggi la nostra scuola, che è frequentata al 90 per cento da buddisti e qualche musulmano e cattolico, viene chiamata «la scuola di Gesù». Un patto non artefatto. Sono i ragazzi che lo chiedono. E sono contenti di venire in un luogo in cui ciascuno è riconosciuto per quello che è. Anche se, all’inizio, non è stato facile far capire che l’iscrizione alla scuola non comportava la conversione al cristianesimo. È un Patto educativo che mette a tema anche la libertà, veicolata da ciascuna esperienza religiosa. Qui in Cambogia, mi pare, il cristianesimo ha una sua singolare chiamata: manifestare il mistero della libertà umana nell’atto di fede.

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Il Papa richiama anche il potere «trasformante» dell’educazione. E io lo capisco bene adesso, dentro le difficoltà legate alla pandemia. L’esperienza della scuola ci ricorda che non siamo macchine e che non possiamo affidarci ad apparati elettronici. L’umano è molto di più. E, nell’educazione, non possiamo prescinderne. E la dimensione dell’Incarnazione reclama l’esperienza del contatto. In questo senso, l’aver concepito le nostre scuole come piccole realtà nelle quali le dimensioni non impediscano il rapporto personale con genitori e famiglie, ci ha permesso di affrontare l’emergenza sanitaria con maggiore facilità, senza rinunciare all’insegnamento in presenza.


* Missionario del Pime, sacerdote dal 1995. Partito per la Cambogia nel 2001, oggi vive nella Prefettura apostolica di Kompong Cham e si occupa di educazione. Nelle scorse settimane è uscito il suo Al di là del Mekong. Lettere dalla Cambogia, edizioni Fondazione Pime.