Charles de Foucauld (Illustrazione: Nausicaa Dalla Torre)

De Foucauld. Verrà ancora la pioggia

Una vita segnata dal movimento tra il vuoto e la presenza. Il lavoro sulla lingua e sulla poesia tuareg è permeato dalla meraviglia. Che cosa ha trovato nel «deserto» il missionario francese, che verrà presto canonizzato? (da Tracce di novembre)
Andrea Fazioli

Autunno 1911. Charles de Foucauld scrive lentamente alla luce di una lampada. Le notti nel Sahara sono fredde e, se non fosse per la mano che si muove sulla carta, l’uomo potrebbe sembrare un fantasma, avvolto com’è in un cumulo di coperte. Il rifugio di Assekrem, dove Foucauld si è trasferito da qualche mese, si trova a 2.900 metri di quota, nel massiccio algerino dell’Ahaggar. Tutto è silenzio. Niente distrae l’eremita dal suo lavoro. Che cosa sta scrivendo? Avviciniamoci, senza farci notare, e diamo un’occhiata.

«Edel: verbo attivo primario, “sperare in” [Dio, o una persona] (si costruisce con un accusativo). // Per estensione “arrivare di notte a un luogo; arrivare di notte a casa di una persona”. Si adopera in questo senso qualunque sia la causa per cui si arriva di notte da qualche parte o a casa di qualcuno, che si sia attesi oppure no. Per estensione: “mendicare” (domandare come elemosina [qualcosa] a [qualcuno], si costruisce con due accusativi). Si dice dei poveri che sono mendicanti».

Edel è una parola in tamasheq, la lingua dei Tuareg. Charles de Foucauld (1858-1916) fu un religioso e missionario francese. Beatificato da Benedetto XVI nel 2005, verrà presto canonizzato da Francesco, dopo il riconoscimento ufficiale (il 27 maggio 2020) di un nuovo miracolo avvenuto nel 2016. Ho immaginato Foucauld mentre si dedicava alla compilazione del suo dizionario tuareg-francese. Composto fra il 1914 e il 1915, consiste in 2.028 pagine scritte a mano con una grafia sottile, illustrate da minuziosi disegni dello stesso autore. Ancora oggi il testo di Foucauld è indispensabile per gli etnologi che vogliano approfondire la cultura dei Tuareg. Non solo, ma Foucauld trovò pure il tempo di raccogliere seimila versi di poeti e poetesse tuareg, che tradusse e ordinò in una silloge.

Da dove viene questo slancio, questa capacità di entrare in contatto profondo con una cultura completamente diversa? Charles de Foucauld era di origini nobili. Orfano, cresciuto dal nonno, intraprese la carriera militare e nella sua giovinezza condusse una vita dissoluta, ma sempre velata dalla malinconia. Aveva bisogno di spingersi lontano, di cercare il vuoto. Nel 1883 partì per un viaggio nelle regioni interne del Marocco, dove nessun europeo aveva messo piede. I suoi studi etnografici gli valsero la medaglia d’oro della Società geografica di Parigi. Il contatto con la religione islamica provocò in lui uno stupore, un’attrazione verso «qualcosa di più grande e di più vero delle occupazioni mondane». Si convertì al cattolicesimo e divenne trappista. Successivamente si trasferì a Nazareth, dove lavorò come domestico in un monastero di clarisse. Nel 1901, dopo l’ordinazione sacerdotale, tornò nel Sahara, prima a Béni Abbès, poi a Tamanrasset e ad Assekrem.

Mi sono imbattuto nella figura di Foucauld facendo delle ricerche per un romanzo. All’inizio mi ha stupito la sua tensione verso Dio, la sua capacità di abbandono, anche se la sua radicalità assoluta mi pareva lontana dalla mia esperienza. Ma qualche mese dopo, durante un periodo in cui tutto mi risultava difficile, dalla scrittura alle faccende quotidiane, ho intuito il senso del deserto. Quella grande assenza, quell’immenso spazio sahariano si apriva anche nella mia vita: al lavoro, in famiglia, mentre ero in coda al semaforo o a cena con degli amici. Il vuoto non era per forza segno di angoscia; anzi, a volte era un invito, un segno che non dovevo rinunciare all’attesa di un compimento.

La vita di Foucauld sta tutta in questa dinamica, in questo inesausto cercare il vuoto perché venga visitato da una Presenza che colma e supera le aspettative. Il missionario di Tamanrasset era consapevole di essere dentro la Chiesa, dentro «l’avventura dell’amore di Dio». Non riuscì mai a convertire nessuno né a fondare un ordine religioso. Ma era lì, in mezzo ai Tuareg, mostrando loro Gesù nella fedeltà della propria amicizia e proponendosi come «fratello universale». Oggi sono numerose le esperienze di fede che si richiamano a Foucauld, fra le quali quella dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle di Gesù. Si può dire che il seme abbia germinato. E se la cultura e la lingua tuareg si sono salvate, in mezzo agli sconvolgimenti politici africani, lo devono anche a Charles de Foucauld.

Scrive Carlo Ossola, studioso e professore di letteratura, che «il deserto di Foucauld è semplicemente l’ascolto della creazione». Perciò bisogna considerare il suo dizionario come «uno degli inni più luminosi alla bellezza del creato», nel quale «ogni lemma è una stazione di contemplazione». La lingua dei Tuareg è attenta alle sfumature di luce, ai suoni minimi del Sahara. Foucauld ascolta e guarda. La parola tit significa contemporaneamente “occhio”, “sorgente” e “fiore”; tésersek è un piccolo raggio di sole che riesce a penetrare in un luogo buio; amagar designa nello stesso tempo lo straniero e l’ospite, poiché sarebbe inconcepibile incontrare uno sconosciuto senza dargli vitto e alloggio.

Foucauld visse all’epoca del colonialismo. Proprio perché aveva respirato quell’atmosfera, il dizionario e le poesie sono un’affermazione straordinaria di apertura e di gratuità. Papa Francesco ha definito Foucauld «un uomo che ha vinto tante resistenze e ha dato una testimonianza che ha fatto bene alla Chiesa». Fra le «resistenze» c’era anche l’idea di convertire i Tuareg a ogni costo, imponendo un modello culturale. Foucauld invece comprese che doveva limitarsi all’essenziale, e cioè all’amore. Portare Cristo ai Tuareg voleva dire, innanzitutto, amarli per quello che erano.

Prima della sua morte, assassinato da una banda di predoni nel 1916, Foucauld condivise tutto con i Tuareg. Egli conosceva anche l’esuf, il rischio della solitudine profonda che nel deserto, in ogni forma di deserto, può divenire mortale. Il dizionario si contrappone a questo pericolo, in quanto forma di memoria e condivisione: come non ritrovare un senso spirituale nel verbo żegżen, che significa «affidarsi interamente a qualcuno» e, per estensione, «abbandonarsi a Dio». Ancora oggi gli scienziati s’interrogano su come Foucauld fosse riuscito a imparare il tamasheq in un tempo così breve. Ascoltò centinaia di poesie di guerra, di amore, di nostalgia, di celebrazione del paesaggio o di lode a Dio. Colpito da una bellezza inaspettata, le voltò in lingua francese.

Prendiamo un canto di Moūssa ag Ämāstan, ad esempio. Composto nel 1891, esprime la magnificenza del creato: «Uomini, temete l’Altissimo / che ha creato Äouharedj e i monti Tidekmār, / che ha creato i terreni difficili che schiantano di fatica i dromedari / […] / e le valli di Ähohogh, di Ahtes e di Tidjīdial. / (...) / Sopra di voi ha creato la luna e le stelle; / ha fatto il giorno con il sole, la notte con il gelo. / Nella valle di Éghergher ha posto delle dune; / ha diversificato il paese: ha messo dell’acqua / nella valle di Äbdenizé, dove la gente dei tempi antichi scavò dei pozzi, / e quest’acqua hanno bevuto le belle donne / venute dalla valle d’Ens-Idjelmāmen e dalla regione di Oūnān (...)». L’accenno alle «belle donne» è il segno di una sapiente transizione dalla sfera cosmica a quella amorosa. I poeti tuareg, proprio come Foucauld, erano avvolti dal vuoto del deserto; perciò le loro poesie sono colme di nomi. Nel territorio intuiscono allo stesso modo la presenza nascosta di Dio e lo sguardo di una bella donna, la sera, davanti al fuoco dell’accampamento.

In un altro poema una donna evoca la bellezza del suo amato attraverso la natura. Kenoūa oult Amāstan, nata nel 1860, descrive il suo uomo in questo modo: «Io, quest’anno, ho visto / una collina di muschio dai mille colori; / l’erba era d’oro e cresceva con vigore; / il miele mescolato con il burro ingrassava la terra; / il latte scorreva e bagnava la collina, racchiusa tra maglie d’argento». L’accenno alle «maglie d’argento» trasforma il paesaggio in un guerriero tuareg.

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In generale, nella lingua tamasheq ogni paesaggio, ogni fenomeno atmosferico diventa un moto dell’anima. La parola aġenna, che si riferisce alla pioggia e in generale all’acqua, «si usa in espressioni quali “verrà ancora la pioggia” o “verrà ancora erba fresca e abbondante”»; e queste, nota Foucauld, sono anche «frasi che si dicono a qualcuno che vi ha fatto del torto o che si scoraggia, nel senso di “tu credi che io soffro del tuo errore; no; non importa; verranno ancora dei bei giorni per noi». Del resto, anche il verbo etteb, che vuol dire “cadere a goccia a goccia”, si usa spesso in senso figurato, per esprimere un amore ardente: «Koūka tettāb dar oul in… nel senso di Koūka cade a goccia a goccia nel mio cuore (Koūka s’infiltra profondamente nel mio cuore; amo ardentemente Koūka)».

Il movimento dal vuoto alla presenza contraddistingue la vita di Charles de Foucauld. Il dizionario e le poesie ne sono segni tangibili, permeati dall’attenzione e dalla meraviglia. Nonostante le difficoltà, Foucauld non ha mai smesso di seminare, certo che sarebbero venuti i giorni del raccolto. In questo senso, sembra fatto apposta per lui il sostantivo emedel, che indica allo stesso tempo il mendicante e l’uomo che si abbandona fiducioso a Dio.