Bucha, 18 aprile 2022 (©Emilio Morenatti/AP/La Presse)

Monsignor Paolo Pezzi. La guerra e noi

La possibilità della luce nella notte dell’umanità, la necessità del perdono, il desiderio della Maddalena. E papa Francesco, che «ci spiazza». Da "Tracce" di maggio, dialogo con l'Arcivescovo della Madre di Dio a Mosca
Alessandra Stoppa

«Un cuore che viva la pace è più forte della bomba atomica». A oltre due mesi dall’inizio del conflitto, per monsignor Paolo Pezzi guardare il fondo di quello che sta accadendo trova così la sua sintesi: «Penso a quell’espressione di don Giussani: “Le forze che muovono la storia sono le stesse che muovono il cuore dell’uomo”». È il rapporto inscindibile tra i grandi avvenimenti sullo scenario del mondo e la possibilità che si gioca e si radica ogni giorno in noi. «La pace comincia dal cuore, accogliendo la “pace” che è Cristo. Chi ha questo coraggio diviene irresistibilmente contagioso».
Pezzi ha vissuto gran parte della sua vita in Russia, arrivato per la prima volta missionario in Siberia nel 1993. Quindici anni fa è stato nominato da papa Benedetto XVI alla guida della Arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca, circa settantamila fedeli in un territorio immenso, e ora piombato nell’orrore. In questo dialogo con Tracce racconta la sua speranza.

Come la interpella quello che sta accadendo? Cosa si è impresso nel suo cuore dall’inizio della guerra?
Mi ha interpellato immediatamente il dolore. Un dolore profondo, suscitato dal dramma vissuto dalle persone, soprattutto le più inermi e indifese. Mi chiedo il perché si sia arrivati a tanto, e cosa Dio vuole dirci attraverso tutto ciò. Poi è molto toccante il racconto dei profughi, che in poche ore hanno dovuto lasciare tutto, senza sapere se lo avrebbero rivisto. Questo provoca in me il bisogno di ridire “sì” a Cristo nella condizione in cui mi trovo. Mi ha reso ancora più grato della mia vocazione, e mi ha fatto guardare in modo nuovo alle persone e alle cose che ho.

Paolo Pezzi è nato a Russi (Ravenna), nel 1960. È Arcivescovo della Madre di Dio a Mosca (©Ansa).

All’inizio del conflitto, lei ha detto che «per la pace non dobbiamo innanzitutto fare qualcosa, ma accorgerci di qualcosa». Di «fiammelle», di «particolari che hanno una portata cosmica, perché hanno la forza di vincere il buio». Può approfondire?
Nel capitolo 14 del Vangelo di Giovanni, che rileggiamo nella Settimana Santa, Gesù a un certo punto del suo discorso di addio parla della “sua” pace, che non è come la pace che intende il mondo. La pace di Gesù è qualcosa da riconoscere e accogliere, non da “fare”. Questa pace è un Bambino, che è diventato uomo e muore in croce per assicurare che questa pace abbia una portata cosmica e storica. Ma quest’uomo “resta” un particolare, un uomo concreto, Gesù di Nazareth, che pure ha una portata cosmica: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». Ogni battezzato partecipando della vita di Cristo risorto diviene una fiammella di speranza per tutti. Recentemente mi trovavo al nord e in una notte completamente buia, di un buio pesto, a un certo punto sono comparse una, due, tre, mille stelle. Erano in grado di rischiarare quella notte. Il buio più pesto non aveva nessun ostacolo da porre.

Lei dove si accorge di questa speranza reale?
Quella notte ho pensato ai tanti che con la loro gratuità mi testimoniano di essere queste fiammelle. In particolare ho pensato ad alcuni bambini e ragazzi affetti da sindrome Down con cui mi trovo ogni tanto, e a uno spastico che durante la liturgia penitenziale che ha preceduto l’Atto di Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, il 25 marzo scorso, è venuto a confessarsi da me. Domando di avere io quella sua purità di cuore, quel cordiale affidamento nelle mani di Dio.

A proposito della Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, lei ha definito quel gesto innanzitutto come un «riconoscimento». In che senso?
La consacrazione al Cuore Immacolato di Maria resterebbe un atto “pietistico”, bello, buono, ma inincidente sulla storia, se non partisse dal riconoscimento di ciò che ha detto la Madonna ai pastorelli di Fatima: «Il mio cuore immacolato trionferà». Ma cos’è il trionfo del cuore per una Madre? Che tutti riconoscano che sono promessi e destinati al Figlio. Del resto Gesù in croce come suo penultimo gesto “offre” la Madre a Giovanni, e Giovanni alla Madre. In questo atto di affidamento è come se Maria “generasse” tutta l’umanità di nuovo.

La prospettiva del Papa sul conflitto è facilmente ridotta o interpretata. Lei cosa vede nella posizione di Francesco? E come possiamo immedesimarci nel suo sguardo?
Papa Francesco ci spiazza, ecco cosa vedo. Mi sembra sempre interessato ad andare al nocciolo della questione. E a usare di tutto per non chiudere mai. Basti pensare a come si è comportato con i governanti del Sud Sudan in conflitto tra loro, entrambe le parti cristiane: per convincerli al dialogo non ha detto loro di ricordarsi di essere cristiani. Si è prostrato e ha baciato loro i piedi. In questo tempo, ad immedesimarmi nel suo sguardo mi aiutano le parole che lui stesso ha pronunciato nel viaggio in Iraq di un anno fa: «Da dove può cominciare allora il cammino della pace? Dalla rinuncia ad avere nemici. Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo».

Vyshneve, a sud-ovest di Kiev, 15 aprile 2022 (©Fadel Senna/AFP/Getty Images)

Di recente, lei ha detto che «la sconfitta più disperante della guerra» è lo spegnersi della fiammella del desiderio, «l’esaurirsi del desiderio dell’attesa, dell’anelito alla pace». E ha posto la sua attenzione sulla Maddalena. Perché?
Per i discepoli la croce è una sconfitta, o almeno un esaurirsi dell’attesa, non c’è più spazio per l’attesa, e i due discepoli che sconfortati se ne tornano a casa a Emmaus sono per me l’emblema di questo esaurimento. Non è stato così per la Maddalena. A lei la croce non ha asciugato il desiderio, e, come dice un Inno della tradizione bizantina stupendamente commentato da Olga Sedakova, le sue lacrime non sono amare (gor’kie), ma ardenti di desiderio (gorjačie). Io vedo questa fiamma nelle tante Maddalene di questo tempo. Uomini e donne che non si rassegnano, ma portano un annuncio di speranza che è più grande di loro. È la coscienza di essere portatori di Colui che Egli stesso ci porta, come diceva una suora alle sue consorelle. Anche il grande Pasternak ne Il dottor Živago è stupito dalla Maddalena: «Mi ha sempre interessato sapere perché della Maddalena si faccia menzione proprio alla vigilia di Pasqua, alla vigilia della morte di Cristo e della sua resurrezione. Non so spiegarmelo, ma questo richiamo alla vita è così opportuno nel momento del congedo dalla vita e alla vigilia del suo risorgere... Così lei prega il Signore: “Sciogli il mio debito, come io sciolgo i miei capelli”. Come sono mirabilmente espressi la sete del perdono e il pentimento! Da toccarli con mano».

In queste settimane dove ha riscoperto Cristo vivo?
Innanzitutto, nel silenzio davanti al Santissimo ogni mattina. E poi nella gratuità di amici, e anche di persone che non conosco direttamente. Per questo occorre che io metta in moto la libertà ogni mattina, e questo non è affatto scontato. Occorre riflettere su ciò che mi rende libero. Václav Havel nel suo indimenticabile Il potere dei senza potere racconta della “libertà” del fruttivendolo, che semplicemente tra i cartellini dei prezzi di frutta e verdura non mette gli slogan imposti dal partito. Ora, senza voler negare che ogni restrizione di espressione riduce la libertà, penso che l’evangelico “la verità vi fa liberi” sia sempre il punto di vista più interessante: cercare la verità porta a riconoscere Cristo.

In questo tempo ha chiesto con nettezza di «rischiare sul perdono», perché la follia della guerra «si vince solo con un’altra follia, quella di Dio». Diceva che del perdono «abbiamo bisogno più dell’aria, perché è il respiro dell’anima». Cosa rende possibile viverlo?
Quest’anno il giorno in cui ho celebrato a Mosca la Messa in occasione del riconoscimento della Fraternità di CL e dell’anniversario della salita al cielo di don Giussani, le letture della liturgia ricordavano la misericordia di Dio. Qualche giorno prima era iniziata l’operazione militare in Ucraina, che nessuno si aspettava, né si pensava potesse durare a lungo. Durante la predica ho ricordato che perdono e misericordia non ci saranno più nel Paradiso, resterà solo la carità. Mentre misericordia e perdono ci sono necessari ora, nella storia. Il perdono è un fatto.

Cioè?
È un fatto: «Io ti assolvo». «Io ti perdono». Altrimenti non avrebbe la forza di vincere un altro fatto terribile come il peccato, la cattiveria, l’odio, la guerra. Un fatto non si vince con un’idea, occorre un altro fatto, un evento. Durante il mio servizio militare alcuni commilitoni giocavano alla “morra sarda”, o almeno così la chiamavano, in cui si buttano giù con le mani delle cose: la mano aperta simboleggia la carta, la mano chiusa la pietra, e le dita a V la forbice. Mi colpiva che secondo le regole la carta vince sulla pietra, perché pur essendo assai più fragile, la avvolge e la vince. Per vivere il perdono occorre avere fatto esperienza di questo “avvolgimento”, di questo abbraccio, come l’abbraccio del figlio ritrovato e perdonato nel bellissimo quadro di Rembrandt all’Ermitage di San Pietroburgo. È semplicemente stupefacente quando vedi questo nel volto di un poveraccio che torna alla chiesa a confessarsi dopo anni e anni, e, come il figliol prodigo, non si aspetta il perdono, ma una giusta punizione. E invece esce dal confessionale e si accosta all’Eucarestia!

La sua gente come sta vivendo questo momento, la responsabilità di fronte a quello che succede, i tanti cari in Ucraina, la lacerazione dei rapporti? Le conseguenze del conflitto sono anche lì, sia per chi decide di andarsene, sia per chi resta…
Per me, e, ne sono convinto, anche per i nostri fedeli, la responsabilità consiste nel vivere la comunione: nel vivere un’unità più forte delle opinioni. Questa comunione si esprime in atto in carità gratuita. Questa responsabilità si fa poi testimonianza di annuncio di questo amore reciproco fino al perdono. Penso che fuori da questa prospettiva ogni decisione di andare o restare, fare una certa azione o un’altra, sia solo fonte di rimorsi o rimpianti che non aiutano nessuno.

Oltre al dolore per i morti e i profughi, c’è quello provocato dall’ideologia…
Non penso che l’ideologia provochi dolore. Provoca rabbia, fanatismo, sofferenza negli altri, sempre e solo negli altri. Si prova dolore invece per la morte di un uomo, per la sofferenza, per l’ingiustizia… E questo dolore non si oppone alla fede, ma è un modo di “condividere” la fede e la speranza con coloro che muoiono, soffrono, sono perseguitati.

Lei vede segni di libertà e di costruzione, anche nell’oppressione?
Io vedo il germoglio di una vita che non soccombe tutte le volte che vedo Gesù dire alla vedova «donna, non piangere», tutte le volte che vedo Gesù singhiozzare sulla miseria e la distruzione delle vite. E Gesù, mi creda, ne fa tanti di questi miracoli nelle persone, o in “momenti di persone” nella comunità cristiana, soprattutto. Vedo in questa compassione, condivisione, una possibilità di costruzione. Come dicevano i Benedettini dopo ogni invasione: «Noi ricominciamo». E ricostruivano i monasteri, così che piano piano rinasceva la vita, rinascevano le città.

Nel tempo questa situazione di violenza e dolore cambierà, o magari cambierà volto e intensità. Cosa vuol dire non sprecare – come spesso il Papa richiama – questo momento?
Sì, durante la pandemia, Francesco ebbe a dire che peggio della pandemia c’è solo lo spreco di questa circostanza. E in effetti, non so da voi in Italia, ma qui in Russia vedo che il rischio maggiore è stato quello di “superare” questa crisi, di aspettare che finisse il più presto possibile. E così ora non ci si rende conto che il mondo è profondamente cambiato, sono cambiati i sentimenti, sono cambiati i rapporti tra le persone, ancora non sappiamo bene quali conseguenze somo-psichiche ci attendono. In questo modo abbiamo sprecato un’opportunità di conversione, di costruzione di una nuova civiltà della verità e dell’amore. Occorre domandarsi il perché di ogni crisi, anche quella attuale, e capire come, attraversandola, si possa divenire più uomini. Guardini diceva che un’epoca si giudica dall’ incremento di umanità che avrà prodotto e comunicato alla generazione seguente.

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Ha vissuto gran parte della sua vita in Russia, dal 1993 al 1998 e dal 2003 a oggi. Che cosa la innamora di questo popolo? E che cosa la interroga di più?
Ciò che mi innamora è sempre anche ciò che più mi interroga. Nel caso specifico è l’imprevisto, l’imprevedibilità, il fattore di attrazione. Padre Scalfi amava riprendere un’espressione russa che dice pressappoco così: «La Russia non puoi capirla, ma puoi amarla». E, amandola, cominci a capirla. Questo aspetto di imprevisto mi colpisce nelle opere della Sedakova, o nei romanzi di Evgenij Vodolazkin. Un aspetto di genialità dell’imprevisto lo noto nei film russi: c’è sempre almeno una scena che non ti aspetteresti, sorprendente. Per esempio ricordo un film, non penso di grande valore, in cui a un certo punto un marinaio esce da un sottomarino e inizia a suonare su una tastiera di pianoforte in legno, in cui i tasti sono solo disegnati, e si commuove al “suono” della melodia. Oppure un altro film sulla guerra in Afghanistan, dove c’è una scena in cui un gruppo di soldati va da una prostituta, destinata solo a coloro che hanno superato tutte le prove di addestramento. Mentre sono lì a fare il loro lavoro con lei, si fermano impietriti e con le lacrime agli occhi si inginocchiano, sorprendendo nel sorriso di quella ragazza tutta sporca una purità di bellezza che li “costringe” a riverirla.