Dalla parte dell’essere

CULTURA - LUISA?MURARO
Roberto Persico

L’uomo di oggi? È bloccato davanti a una realtà che sembra non rispondere. Per l’autrice de Al mercato della felicità, occorre ri-prendere il compito di stare al mondo, «perché le cose non finiscano in niente». E scommettere su desiderio ed esperienza, «un impensato che non dipende da noi»

Non capita tutti i giorni di imbattersi in libri in cui parole tanto fondamentali e tanto spesso malintese sono invece affrontate in modo intelligente come nell’ultima fatica di Luisa Muraro, Al mercato della felicità: (Mondadori): «Esperienza non è un provare questo o quello - scrive - ma un essere in presenza». «L’esperienza non esibisce credenziali, non dimostra, non ha fondamento e vale lo stesso, non è un metodo o un mezzo, è prima e ultima, noi la facciamo ma non dipende da noi, ci fa uscire da noi e ci rivela a noi e non ci inganna; semmai capita che noi la tradiamo nel senso di trascurarla, di non ascoltarla, di non tenerla in conto... Ma c’è lo stesso, c’è anche senza che la nominiamo». Anche se «l’esperienza non basta, bisogna averne l’idea, altrimenti viene scambiata con surrogati e l’idea viene sostituita con una pensata». E al cuore dell’esperienza quella dimensione irriducibile che si chiama desiderio: «Il reale non è indifferente al desiderio, nonostante ci capiti spesso di fare l’esperienza di una loro apparente, reciproca, terribile estraneità; [ma questa] non è un invito alla moderazione, né alla rinuncia rassegnata, ma alla contrattazione instancabile, sempre rilanciata, dalla quale usciremo tanto più guadagnanti quanto più avremo rincarato sul desiderio». Ce n’è d’avanzo per farsi venire il desiderio - appunto - di andarci a fondo. Così, dopo averne parlato in pubblico al Centro culturale di Milano, siamo andati a trovarla nel suo bell’appartamento di Porta Ticinese.

Perché ha sentito l’esigenza di scrivere un libro su queste cose?
Perché viviamo in un mondo in cui qualcosa si è incastrato, c’è qualcosa che non funziona più. Gli uomini e le donne sono come bloccati di fronte a una realtà che sembra non rispondere. Mi sono accorta drammaticamente di questa situazione facendo lezione, incontrando tante studentesse anoressiche. Sono giovani donne che si sono bloccate, perché quando si sono aperte al mondo il mondo le ha riempite, le riempie di ghiaccio. Per uscire da questo blocco c’è solo una possibilità: riprendere in mano il nostro desiderio.

Ecco, ripartire dal desiderio. Ma è una parola equivoca. Oggi siamo immersi in una “dittatura del desiderio”, per cui tutto ciò che uno vuole deve essere realizzato, realizzabile, diventa un diritto...
Perché si è perso di vista il nesso sostanziale del desiderio con la realtà. Perché abbiamo scambiato la realtà con la sua riduzione positivistica a puri fatti manipolabili. Invece, come ho scritto, «il reale è più di quella realtà alla quale si attiene la rappresentazione realistica dei fatti», è una possibilità che continuamente ci viene incontro, offrendosi. Occorre perciò riprendere il «segreto commercio» con un reale che non è indifferente al nostro desiderio, la contrattazione continua tra esperienza, pensiero, pratica, senza la quale si cade nell’irrealtà e si finisce preda della logica della ragione astratta e del potere.

Infatti lei scrive che occorre prendere «congedo dalla ragione che ignora il prima per avere il primato».
È la critica che faceva già il grande Leopardi. «Non si dica che la ragione vede poco - scrive il poeta-filosofo - al contrario, essa si estende quasi all’infinito ed è acutissima su ogni oggetto. Ma, sottoposta al suo sguardo, ogni cosa si rimpicciolisce, cosicché essa, tanto più vede, tanto meno vede». Perché la ragione moderna, per affermare il suo potere assoluto, è costretta a eliminare, a censurare tutto quello che viene “prima”, il fatto che noi siamo un corpo vivente, desiderante. Che è nato da una donna, nella relazione materna, data gratuitamente e rischiosamente. Oggi veniamo da secoli di una progettualità politica costruita ignorando questo aspetto essenziale dell’umano: che è venuto al mondo piccolo, bisognoso, piangente. Il progetto prometeico della rivoluzione e della scienza si è costruito ignorando il “da dove veniamo”, il concreto della nascita, della nascita da una donna. Perciò ignorando tra l’altro la differenza femminile. E il disprezzo della differenza è peggio dell’affermazione di un potere violento. Per me un momento decisivo è stato quando ho capito di non dover gareggiare con gli uomini, quando ho scoperto che la mia femminilità era una grande risorsa. È allora che nella mia vita ha fatto irruzione l’impensato. Mi si è aperto davanti un mondo, un mondo tutto da pensare e da dire, da dover trovare le parole per dirlo.

Fermiamoci un momento su questo termine che lei usa così volentieri, l’“impensato”.
L’impensato è il nuovo che prima non c’era e quando accade si impone. È l’idea del governo del popolo nella Rivoluzione francese, l’immagine del potere che si accende nella mente di Macbeth all’inizio della tragedia di Shakespeare, la caduta di Paolo da cavallo. L’impensato entra nella storia nelle maniere più impensate, appunto; anche banali. Ma quando accade si impone come sola cosa da pensare.

Durante l’incontro al Centro Culturale di Milano a questo punto qualcuno le ha chiesto se non è qualcosa che era già in noi...

No. È qualcosa che avviene. È un accadimento. Viene da fuori di noi. Vede, noi siamo poca cosa. La nostra volontà è incapace di realizzare il bene. Noi non siamo buoni. Ma attraverso di noi può capitare che si faccia il bene, si dica il vero, accada qualcosa di giusto: capiti l’impensato. Ma per questo occorre che ci spostiamo un po’ da noi stessi. L’io rischia di essere un tappo sulle possibilità: occorre fare uno scarto, spostarsi di lato, lasciare spazio a un punto di vista che non è solo il mio.

Poi occorre trovare le parole per dirlo...
È il lavoro di tutta la vita. Io non ho fatto altro che cercare di dire la differenza femminile, di riscattare l’esperienza delle donne. Il vissuto delle donne è quasi sempre spregiato, anche da quelli che se ne proclamano rispettosi. Se le donne non hanno parole sono povere, perché non sono capaci di dare voce alla loro esperienza. E senza l’esperienza femminile è più povero il mondo. Oppure pensiamo a san Paolo: tutta la sua vita è dominata, determinata dall’impensato che gli è accaduto quando è caduto da cavallo. Non ha fatto altro che cercare le parole per dire quell’esperienza. E insieme, nelle sue lettere meravigliose si sente lo sforzo enorme di dire qualcosa che è irriducibile a parole; ma rimane l’impressione che l’esperienza superi sempre il tentativo di raccontarla.

Ecco, lei dedica grande attenzione alla questione del linguaggio, al problema di trovare le parole “giuste”: «Il linguaggio religioso - scrive a un certo punto -, specialmente se accompagnato dall’arte, ha il dono di dare un’espressione intensamente drammatica a quello che io chiamo necessaria mediazione. Tuttavia, il linguaggio religioso aiuta ma non sostituisce la ricerca delle parole in prima persona. I santi e le sante hanno sempre ricercato le loro parole, ma i preti (non intendo solo i nostri) non lo fanno e non lo insegnano; insegnano a comportarsi bene, ma non a continuare il lavoro della mediazione.
Prendiamo per esempio la predicazione sull’aborto: è tutta determinata dalla preoccupazione di dire la cosa giusta, ma senza incaricare l’altro di cercare la sua mediazione, le parole adeguate. Assistiamo alla ripetizione di parole stereotipate: anche giuste, ma precludono il lavoro dell’altro. Dimenticando che il singolo - la singola, in questo caso - non è capace di fare il bene. Da questo punto di vista, a me pare che la differenza del santo non è che è capace di fare il bene, è un pover’uomo anche lui, o lei; ma il santo ha pazienza, lascia che l’altro faccia tutti i passaggi. C’è un’astrattezza delle parole che pretende di rendere superflue le cose, di rinchiudere tutto nella logica di un discorso perfetto, la tentazione di tutta la filosofia moderna. È il vizio degli intellettuali. Invece c’è l’espressività di un linguaggio quando i corpi non sono resi superflui, c’è un modo di nominare le cose che permette a chi ascolta di farne un’esperienza più vera.

Colpisce questa insistenza sulle “cose”...
Oggi c’è bisogno di salvare le cose. Salvare le cose dall’annientamento, dal finire in niente. A noi tocca stare dalla parte dell’essere, per affermare il suo trionfo. È come se l’essere avesse bisogno delle nostre braccia per affermarsi. La mediazione, la mediazione linguistica, la parola che nomina con verità le cose, è sempre dell’ordine della salvezza: senza questa mediazione le cose vanno verso il peggio, come abbiamo visto drammaticamente nel secolo scorso - i campi di concentramento, la Cambogia, il Rwanda... Oggi il compito è la ripresa. Dobbiamo ri-assumere il compito di stare al mondo. Il compito di scolaro, di moglie, di prete. Ri-assumere il tutto, che ti è affidato nella tua condizione attuale. Aver presenti le cose grandi e farle stare in un gesto piccolo. O, che è lo stesso, tenere il proprio piccolo in un orizzonte grande.

Un abbraccio grande che ci salva dalla nostra incapacità?
Pensiamo a Maria Maddalena e Pietro il traditore: loro “rimbalzano”, come scrive Margherita Porete nel suo Specchio, commentando il passo biblico che dice il «il giusto pecca sette volte al giorno». Anche il giusto ha le sue mancanze, ma tutto quel che resta della mancanza è il ricorso a Dio. Voi pensate che la Maddalena e Pietro in Paradiso si vergognino, nascondano i loro peccati? No, sono fieri, perché per quei peccati sono quelli che più hanno ricevuto.

Senta, lei, di tradizione laica, di sinistra, fa continuamente riferimenti religiosi, nomina continuamente Dio: che cosa significa per lei?
Sì - sorride - le mie amiche della Libreria delle donne mi hanno chiesto di non mettere più Dio nel titolo dei miei libri, se no non riescono a venderli (gli ultimi libri prima del Mercato, si intitolano Il Dio delle donne e Il posto vuoto di Dio; ndr). Scherzi a parte, io ho sempre presente l’insegnamento del mio maestro Bontadini: l’Essere è costante donazione di sé, è sempre all’opera, è intento a generare il mondo in ogni momento. Durante un dibattito alla laicissima libreria suddetta, a uno che mi citava certe statistiche, ho risposto: «Il mondo è pieno di gente che non crede in Dio, che è qui davanti a noi; io potrò non credere nelle statistiche?». Dio è quel che continuamente tiene su il mondo. È padre e madre, come disse una volta papa Luciani: genera continuamente le cose che abbiamo davanti.

Per questo legge così tanto le grandi mistiche?
Io voglio tenere aperto l’orizzonte alla totalità dell’esperienza umana. Le mistiche sono donne che non sono passate attraverso la mediazione degli uomini: per loro l’ultima parola è di Dio.
(Ha collaborato Flora Crescini)