Una scena del film.

JERZY POPIELUSZKO La speranza non si può uccidere

A 25 anni dalla sua uccisione, un film ripercorre la storia del "cappellano di Solidarnosc". Il giovane sacerdote polacco che accompagnò i suoi amici e la sua patria nella lotta per la libertà. Fino al sacrificio della vita
Tommaso Ricci

Un giorno qualcuno suggerì a don Jerzy che nelle omelie delle sue affollatissime messe per la patria lui avrebbe fatto bene a fare nomi e cognomi, a puntare il dito accusatore contro il generale Jaruzelski, contro Jerzy Urban, l'odiato portavoce del governo (un mese prima dell'assassinio del sacerdote Urban bollò pubblicamente don Popieluszko come "Savonarola anticomunista"). Don Jerzy riunì i suoi amici più fidati e chiese loro se doveva seguire quel consiglio. I suoi amici gli dissero di sì. Don Jerzy si portò le mani al volto e scuotendo sconsolato la testa disse: «Allora non avete capito niente. Io combatto il male, non le vittime del male!». Per lui, i suoi nemici più acerrimi, quelli che l'avrebbero fatto uccidere, erano vittime del male.
In quelle messe nella parrocchia di san Stanislao Kostka di Varsavia si pregava anche «per tutti quelli che sono qui per motivi professionali», cioè le tante spie comuniste inviate dal regime per controllare e schedare.
Al fratello maggiore Jozef, che accompagnava la mamma alle messe di Varsavia, diceva: «Vediamoci prima della messa perché dopo devo nascondermi per sfuggire alla polizia»; giacché una delle vessazioni preferite del potere erano le continue, pretestuose convocazioni in commissariato.
Venticinque anni dopo l'assassinio di don Jerzy Popieluszko un coinvolgente film kolossal rievoca la straordinaria figura di questo giovane della Podlachia, regione orientale della Polonia (dove si produce la famosa vodka del bisonte), abitata da gente semplice, dal fare dimesso. E proprio questo colpiva del giovane Popieluszko, il suo essere dimesso ma tenace, la sua forza tranquilla che non tracimava mai in agitazione disordinata, ma andava decisa allo scopo. Il film che il giovane, brillante regista Rafal Wieczynski ha dedicato a questo “grande europeo”, come disse Giovanni Paolo II commemorando il suo connazionale, squaderna davanti agli occhi ed alla mente dello spettatore un capitolo cruciale di storia contemporanea condensato nella storia personale di un giovane prete. Capitolo che al momento del suo svolgersi destò interesse mondiale per l’epicità e la drammaticità intrinseche ma che è stato presto oscurato e dimenticato quanto al suo valore “ammaestrativo”. C'è una scena del film che vale un intero trattato di storia e cioè quando gli operai polacchi, che occupavano la fabbrica di Huta Warszawa sulla scia di quel che era appena accaduto nei cantieri di Danzica con l'elettricista Lech Walesa, mandano a chiedere alla Curia un sacerdote per l'assistenza religiosa: l'occupazione si preannunciava lunga e rischiosa e non volevano perdere la messa e le confessione. L'avventura di don Jerzy comincia lì, davanti a quei cancelli che restano sprangati alle autorità comuniste - quelle che in nome della dottrina marxista gestivano la rivoluzione proletaria in favore della classe operaia - e si aprono invece a uno spacciatore di “oppio per il popolo”, ad un prete che la storia doveva aver accantonato, o al massimo tollerato, come residuo del passato. E invece lì, oltrepassati quei cancelli, iniziava l'oltrepassamento della lezione storica di Karl Marx: la Chiesa diventava protagonista nella lotta per l'emancipazione della classe operaia. Questa novità, ingoiata dalle cronache del momento, non è stata mai digerita dalle riflessioni posteriori, non si è mai trasformata in giudizio: questo film è un ottimo stimolo per farlo. Fin qui il versante intellettuale dell'opera di Wieczynski, che in sette anni di lavoro ha costruito un film aderentissimo ai fatti, basato su una miriade di testimonianze personali e su un accurato esame della documentazione storica. Ma c’è anche un versante emozionale del film ed è quello che riguarda la “piccola” storia personale di don Jerzy Popieluszko, la sua graduale presa di coscienza che si stava inoltrando non su una via trionfale bensì su una via crucis. Testimone d'eccezione di questa vicenda è il cardinale Jozef Glemp, Primate di Polonia e a quel tempo neoarcivescovo di Varsavia (l'eroico cardinal Stefan Wyszynki era morto da poco); Glemp ha accettato di recitare la parte di se stesso nel film, per far questo si è dovuto tingere i capelli, oggi bianchi, del nero di allora. L'abbiamo incontrato a Roma e questo è il suo ricordo: «Il dialogo nel film tra me e don Popieluszko andò proprio così. Io ero stato molto severo con lui e gli avevo consigliato, come altri suoi amici, di trasferirsi altrove, magari all'estero per studio. Lui mi rispose che se glielo ordinavo mi avrebbe obbedito, altrimenti sarebbe rimasto al suo posto. Ma io gli replicai che non potevo far questo, sarei diventato un collaboratore del regime! La situazione era davvero drammatica».
La scelta consapevole di don Jerzy di non abbandonare gli amici e la patria in sofferenza significò l'offerta suprema della vita. Fino ad oggi sulla sua tomba hanno pregato 17 milioni di pellegrini, con lui una nuova luminosa figura di santo patriota si aggiunge al ricco albo della Polonia, una terra dove il bene della libertà costa da sempre molto più che altrove. Un “grazie” al film di Wyeczinski per averci ricordato tutto questo.