La copertina del dvd.

KUROSAWA La malattia che fa tornare bambini

Il film del “più occidentale” dei registi giapponesi racconta di un impiegato comunale stanco e annoiato dalla vita. Fino al giorno in cui scopre di avere un cancro allo stomaco...
Luca Marcora

Quando lo stanco impiegato comunale Watanabe scopre di avere un cancro allo stomaco, decide di dedicare il poco tempo che gli resta da vivere per bonificare una zona paludosa, così da costruire un parco giochi per i bambini, opera questa che lui stesso aveva a suo tempo insabbiato nella routine della burocrazia…
Parlare di cinema asiatico in Italia non è facile: il nostro mercato cinematografico non è così aperto come in altri Paesi europei, per cui dell’ingente produzione di un Paese come il Giappone arriva solo una piccola parte, con un occhio più al probabile riscontro di cassetta che all’effettiva qualità dell’opera. A ciò si deve poi aggiungere tutta una serie di pregiudizi purtroppo ancora saldamente radicati nel nostro modo di pensare, che tirano in ballo le più ridicole leggende metropolitane - come «i giapponesi producono solo cartoni animati per bambini». Così se in Francia autori contemporanei come Kawase Naomi e Kore-eda Hirokazu sono giustamente considerati maestri, in Italia sono ancora dei perfetti sconosciuti…
Paradossalmente questo accade anche per quei registi che nel nostro Paese hanno saputo abbattere questo muro di indifferenza, come Akira Kurosawa, noto per film come Rashomon (1950), I Sette Samurai (1954), Dersu Uzala (1975) e Ran (1985) e troppo spesso considerato come “il più occidentale” dei registi giapponesi, per contrapporlo ai suoi colleghi “più orientali” Ozu Yasujiro e Mizoguchi Kenji (ma Alberto Pezzotta ha dimostrato che la questione non è certo così semplice). Tuttavia la maggior parte della produzione del Tenno (“imperatore”, come veniva chiamato Kurosawa dai suoi colleghi) è quasi sconosciuta in Italia, specie i suoi film più antichi. Come questo Vivere, capolavoro del primo periodo del maestro giapponese, film sulla morte ma che «riesce a trattare della malattia senza deprimerci, comunicandoci una forsennata voglia di vivere» (A. Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro Cinema, Milano 2001). Kurosawa dipinge qui uno dei suoi affreschi più potenti e sentiti, che mostra tutta la profondità di un cinema che merita di essere riscoperto e valorizzato contro ogni pregiudizio. Attraverso uno stile asciutto che mai scade nel patetico o nel moralistico, racconta il cambiamento di Watanabe (magnificamente interpretato da Shimura Takashi) nell’affrontare le circostanze della sua quotidianità: dapprima distaccato da tutto, senza interesse se non quello di arrivare a sera senza troppi problemi; poi coinvolto e commosso dai bisogni degli altri dopo la scoperta della malattia, teso a vivere cercando il senso di ogni istante che gli rimane. Nella prima parte la macchina da presa segue direttamente il protagonista lungo l’abisso della disperazione in cui precipita, mentre nella seconda il regista compie un balzo in avanti di cinque mesi e ci mostra il suo radicale cambiamento attraverso gli occhi e le testimonianze dei suoi colleghi, riuniti a commemorarlo il giorno del suo funerale. Ma il ricordo dell’uomo, purtroppo, è destinato a dissolversi quasi subito.
Negli occhi dello spettatore però non può non rimanere impressa quell’ultima immagine di Watanabe seduto sull’altalena del nuovo parco giochi immerso nella neve candida, mentre canta sottovoce: vecchio e in punto di morte, ma ora in grado di guardare alle cose con l’innocenza di un bambino che cerca il senso di tutto.

Vivere (Ikiru, Giappone 1952)
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di Akira Kurosawa