Un fatto in cammino

TEATRO - GLI "INCAMMINATI"
Paola Bergamini

Lui era Giovanni Testori, uno dei più grandi scrittori italiani. Loro, tre universitari sconosciuti. Dal loro incontro, 25 anni fa, nasceva una Compagnia su cui nessuno avrebbe scommesso. Per «portare in scena il dramma della carnalità di Cristo». Dagli inizi in salita alla stima di don Giussani (e di grandi registi), storia di un’avventura sorprendente. Che continua

Via Ugo Foscolo 4, cinquanta metri da piazza Duomo a Milano, al secondo piano la targa fuori dalla porta dice “Incamminati”. Dentro: uno stretto corridoio e un paio di stanze con le pareti tappezzate di locandine e di mensole cariche di libri e faldoni. Dal 1999 è la sede della compagnia teatrale di giro Teatro de Gli Incamminati, fondata venticinque anni fa da Giovanni Testori insieme a... tre giovani universitari: Emanuele Banterle e Riccardo Bonacina, studenti in Lettere, con la passione per il teatro con cui si stavano cimentando (il primo nella regia, il secondo sulla strada della critica teatrale), e Antonio Intiglietta, neolaureato in Scienze politiche, presidente della Confraternita dello Spettacolo, carica ereditata da Alberto Contri, un’opera che radunava varie esperienze nate nell’ambiente di Cl. Un’avventura. Su cui, ai tempi, nessuno dell’intellighenzia milanese avrebbe scommesso una lira: il grande drammaturgo novatese con questi giovani “sciamannati” dichiaratamente cattolici, a fare teatro, portando in scena il dramma della carnalità di Cristo nelle pieghe della vita di tutti i giorni. Uno scandalo. Ma qualcosa, prima, era avvenuto nella vita di Testori. L’incontro nel ’78 con alcuni universitari del movimento, che erano andati a trovarlo nello studio di via Brera 8 dopo aver letto un suo fondo appassionato e drammatico sul Corriere della Sera, una voce fuori dal coro in quel momento tragico per il Paese. Un grido.

L’idea e la strada. La storia degli Incamminati inizia proprio da questo: da un incontro. Per Testori con l’avvenimento di Cristo, ritrovato attraverso l’amicizia con quei ragazzi e con don Giussani. E per alcuni di loro lo scrittore diventa un maestro con cui impegnare la propria vita. Lui si gioca tutto. Al Pier Lombardo legge Conversazione con la morte, testo scritto dopo la morte della madre, a organizzarlo proprio i ragazzi della Confraternita dello spettacolo. Nel ’79 scrive Interrogatorio a Maria, la regia la affida al ventiduenne Banterle con la compagnia del Teatro dell’Arca. Più di quattrocento repliche nei teatri, nelle piazze, nelle chiese di tutta Italia.
È un successo, anzi un evento. Nell’80 è la volta del Factum est con la regia sempre di Banterle, recitato da Andrea Soffiantini. Nell’83 Testori scrive il Post-Hamlet. Per metterlo in scena, Intiglietta trova un finanziamento attraverso il Congresso Eucaristico che si svolgeva proprio a Milano. Si fa strada l’idea: una compagnia teatrale propria, una compagnia che lavorasse sul teatro di parola seguendo Testori, scegliendo, di volta in volta, attori e regia. Ad affiancare il gruppo arriva un altro giovane: Gian Mario Bandera, fresco di laurea in Economia, che a teatro non c’era mai stato, ma che negli anni dell’università aveva seguito l’organizzazione degli happening dei giovani a Milano e, soprattutto, era affascinato da questa amicizia operativa. Nel luglio di quell’anno Testori trova il nome: «Ci chiameremo Incamminati, come l’Accademia degli Incamminati dei Carracci. È così bello. Ci si mette in cammino e così questa Compagnia saprà che può esistere solo se saprà stare sempre in cammino, non accontentandosi mai, non sedendosi mai».
L’avventura comincia davvero l’anno seguente, l’84, appunto, cercando di portare nei circuiti teatrali normali il Post-Hamlet. Racconta Bandera: «Era durissima. Del teatro cattolico nessuno ne voleva sapere. Ci rivolgemmo agli amici assessori, alle parrocchie, a tutti». A ottobre viene messa in scena un’altra grande opera di Testori: l’Erodiade, al Teatro di Porta Romana, con molto successo. Ma la sopravvivenza della Compagnia è sempre a rischio, proprio per la difficoltà di imporre ai teatri la produzione testoriana. Spiega Banterle: «Intiglietta sosteneva che per tenere in piedi la Compagnia bisognava allestire anche un grande classico. E che ci voleva un grande attore». Attraverso Bonacina avviene l’aggancio a Franco Branciaroli, che Testori stimava molto. E nell’85 debuttano con un grande classico: La vita è sogno di Calderón de la Barca, con interprete e regista proprio Branciaroli. «Come primo grande allestimento - commenta Banterle - riuscimmo a presentarlo in pochi teatri. Ma l’idea per noi era ormai chiara: affiancare alle opere di Testori i grandi classici cristiani. Questo era il nostro impeto ideale. Questa la nostra sfida al panorama culturale italiano».
Interviene Bandera: «L’esperienza ce la siamo fatta sulla nostra pelle con quello spettacolo. Non avevamo ancora ben chiaro cosa volesse dire essere una compagnia di giro, per cui, ad esempio, le scenografie scelte da smontare e rimontare erano un bel problema». E come mai Branciaroli accettò la sfida? «Avevo dieci anni più di loro - ricorda l’attore -, e non volevo più essere in balìa dei registi. Questi ragazzi avevano un’organizzazione. Per me era l’occasione di fare l’attore e basta. Di poter decidere cosa mettere in scena».
Sempre nell’85, Intiglietta si dedica alla politica e deve lasciare la direzione degli Incamminati, mentre Bonacina prende definitivamente la strada del giornalismo. A quel punto Banterle capisce che, per sostenere quest’idea diversa di teatro, è necessario lavorare sull’organizzazione e sulla distribuzione. Così inizia a tessere rapporti coi teatri, abbandonando in parte la regia. Impresa durissima. Anche se si hanno Testori e Branciaroli dalla propria parte, viene da dire? Ride Branciaroli: «Alla cultura laica andava benissimo il Testori dell’Arialda, al limite anche di Conversazione con la morte. Non il Testori delle ultime produzioni, non il Testori cattolico. Ed anche io, che ero il cocco della sinistra, quando mi sono aggregato a questa compagnia cattolica, ma soprattutto ciellina, sono stato ostracizzato. Non valevo più nulla. Il mio quoziente artistico era uguale a zero». Spiega Banterle: «Nelle nostre produzioni portavamo l’idea unica di Testori: il teatro come atto in cui accade qualcosa che interpella lo spettatore. Non una rappresentazione intellettuale o di idee, ma un fatto, un incontro. Testori nei suoi drammi coglieva la drammaticità della realtà in quel momento storico. Anzi, a volte anche prima: penso, ad esempio, a In Exitu. Erano gli anni della Milano da bere e lui mette in scena la tragedia di un giovane drogato. Il teatro diventa qualcosa di reale, di vivo».

Confessioni. Aggiunge Branciaroli: «Soprattutto gli ultimi testi sono delle confessioni. Questa è la teologia testoriana: non il verbo che si fa carne, ma la carne che si fa verbo. Non c’è più la storia, non c’è più la quarta parete. Sono testi che tendono a provocare. In questo senso la vera forza di Testori è la sintassi, una specie di ritmo. Che non ti lascia in pace, senza aver nulla di predicatorio. Perché il teatro è conoscenza».
Un modo appassionante di conoscere la realtà. Non a caso don Giussani amava andare alla prova generale di ogni spettacolo: «Vedeva nel teatro una forma di educazione molto forte - aggiunge Bandera -. Franco sostiene che è l’unico prete che capiva il teatro. Ricordo quando andammo a dirgli di In Exitu. Mi prese da parte e mi disse: “Rimani fedele a tutto questo”. Mi è servito per sempre».
Gli Incamminati, quindi, “impongono” questo modo di fare teatro. Continua Banterle: «Noi eravamo e siamo un caso anomalo, oltretutto una compagnia di giro, cioè non avendo un teatro stabile, dovevamo dipendere dalle scelte dei direttori dei teatri delle varie città, tutti per lo più di sinistra. Una sfida, che abbiamo vinto. Oggi, come compagnia di prosa, siamo in testa al finanziamento ministeriale e realizziamo circa 150 recite all’anno».

Doppio binario. Fino alla morte dello scrittore novatese, avvenuta il 16 marzo 1993, la Compagnia si muove su questo doppio binario: la produzione testoriana e i classici. Ma dopo? Branciaroli è categorico: «Senza di lui non si possono più mettere in scena i suoi drammi». Difficile da capire. «In effetti è stata un’esperienza unica, straordinaria», spiega Banterle: «Poter mettere in scena i suoi testi con lui presente. E tutti per la prima volta». Ma ciò che hanno ricevuto in eredità non va perso: l’idea del teatro come conoscenza, come evento, come lettura e partecipazione della realtà, continua negli allestimenti di classici, cristiani e non. Un lavoro che ha significato anche l’incontro con grandi registi come Luca Ronconi - un esempio travolgente è stata la Medea, messa in scena nel dicembre del ’96, con oltre duecento repliche -, con professionisti di nome come Antonio Calenda o con un giovane come Claudio Longhi, con cui nel 2002 allestiscono Caligola di Camus. E sono tantissimi gli attori coinvolti con Branciaroli, tra i quali figurano nomi come Mariangela Melato, Umberto Orsini, Luca Zingaretti, Elena Sofia Ricci... Vengono ripresi autori come Beckett, Ibsen, Cervantes, Brecht. Franco rivisita alcuni testi classici e propone delle novità a volte con buon esito, a volte con più difficoltà. La Compagnia, per sostenere questi progetti, decide di allestire parallelamente anche altri spettacoli e di sostenere altre formazioni. È il rapporto di amicizia operativa fra i tre che permette di intraprendere varie strade. Di non essere mai tranquilli e di non dare mai nulla per scontato. Gli Incamminati, come aveva predetto Testori, sono ancora in cammino.
L’avventura continua. Da gennaio a marzo nei principali teatri italiani verrà messo in scena il Don Chisciotte, rielaborato da Branciaroli e da fine marzo a maggio l’Edipo re di Sofocle, con la regia di Antonio Calenda. E allora: si vada in scena.