Sant'Agostino, ritratto da Sandro Botticelli (part.).

CARITÀ E TRADIZIONE Cristo non chiede altro che «Mi ami tu?»

Tra le navate della basilica di Ippona, sant'Agostino commenta la Prima lettera di san Giovanni. In quelle parole, un contributo per approfondire il lavoro di Scuola di comunità
Giuseppe Bolis

Siamo intorno al 413 ad Ippona (Nord Africa, attuale Algeria), divenuta famosa in tutta la Chiesa e non solo grazie al suo vescovo Agostino. Come buon pastore che vuole «pascere le sue pecore» secondo il comando di Cristo, sta leggendo e commentando passo passo il Vangelo di Giovanni, giustamente ritenuto la summa più profonda di tutta l’esperienza cristiana. Nel frattempo, però, è giunta la Settimana Santa e la liturgia della Chiesa prevede letture specifiche. Allora Agostino si mette a riflettere: «Cosa può essere utile al mio popolo, per approfondire ciò che la liturgia indica e nello stesso tempo non perdere il passo e lo stile del discepolo che aveva poggiato il capo sul cuore di Cristo?». Ed ecco la scoperta geniale: leggere per tutta la settimana successiva alla Pasqua la Prima lettera dello stesso san Giovanni.


AGOSTINO, Commento alla Prima lettera di Giovanni, sermo 5

3. ...Ho detto dunque che le parole: Chi è nato da Dio, non pecca, vanno riferite ad un determinato peccato, perché diversamente sarebbe in contraddizione con questa altra dichiarazione: Se diremo di non aver peccato, ci inganniamo e la verità non è in noi. La soluzione del problema può essere questa. C’è un peccato che non può essere commesso da chi è nato da Dio; astenendosene, sono tolti anche tutti gli altri peccati; ma quando lo si commette, anche tutti gli altri peccati vengono confermati. Quale peccato? Agire contro il comandamento di Cristo, contro il testamento nuovo. Ma qual è questo comandamento nuovo? Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate vicendevolmente. Non osi gloriarsi e neppure dirsi nato da Dio, chi agisce contro la carità e l’amore fraterno: chi invece è costante nell’amore fraterno, certi peccati non li può commettere e particolarmente non commetterà il peccato di odiare il proprio fratello. Che ne sarà allora degli altri peccati, dei quali fu detto: Se diremo che non abbiamo peccato ci inganniamo ed in noi non c’è verità? Ebbene c’è una rassicurazione al riguardo, contenuta in un altro passo della Scrittura: La carità copre molti peccati (1 Pt 4,8).

[La carità perfetta]
4. Vi raccomandiamo dunque la carità; essa costituisce la raccomandazione fondamentale di questa Epistola. Che cosa chiese il Signore, dopo la sua resurrezione, a Pietro, se non: mi ami tu? Né si limitò a chiederglielo una sola volta; ripeté l’identica richiesta una seconda e una terza volta. Anche se Pietro alla terza identica domanda si mostrò rattristato, quasi incredulo che il Signore ignorasse i suoi sentimenti, egli non pensò di mutare la sua richiesta, dopo la prima e la seconda volta. La paura aveva spinto Pietro a rinnegare tre volte, e tre volte il suo amore doveva dare testimonianza a Gesù (cfr. Gv 21,15-17). Pietro dunque ama il Signore. Che cosa dovrà dare al Signore? Non avrà anch’egli sentito il suo animo in pena, leggendo queste parole del salmo: Che cosa renderò al Signore per tutto quello che mi ha dato? (Sal 115, 12). L’autore di queste parole del salmo sentiva quanto fossero grandi i doni ricevuti da Dio; cercava che cosa restituire a Dio e non lo trovava. Qualunque cosa si scelga per ripagarlo, lo si è ricevuto da lui. Che cosa trovò il salmista per ripagare il Signore? L’abbiamo già detto: proprio ciò che aveva ricevuto da Dio stesso e perciò disse: Io prenderò il calice della salvezza ed invocherò il nome del Signore (Sal 115, 13). E chi gli aveva dato questo calice della salvezza se non lo stesso Signore a cui voleva restituirlo? Prendere il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore significa essere ricolmi di carità in tale pienezza che si sia pronti non solo a non odiare il fratello ma a morire per lui. Sta qui la perfezione della carità: essere pronti a morire per il fratello. Il Signore ha dato l’esempio di questa carità, morendo per tutti e pregando per quelli che lo crocifiggevano col dire: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34). Se lui solo avesse agito così, senza avere dei discepoli che lo imitassero, non sarebbe stato un vero maestro. I suoi discepoli invece, seguendo il suo esempio, fecero appunto la stessa cosa. Quando Stefano veniva lapidato, stando in ginocchio, disse: O Signore, non imputare a loro questo peccato (At 7,60). Egli esercitava l’amore verso quelli che lo uccidevano, e per essi moriva. Hai l’esempio anche dell’apostolo Paolo, che dice: Io mi sacrificherò interamente per le vostre anime (2 Cor 12,15). Egli era tra coloro per i quali Stefano pregava, nel momento in cui essi lo facevano morire. Questa dunque è la carità perfetta. Chi avesse una carità tanto grande da essere pronto a morire per i fratelli avrebbe raggiunto la carità perfetta. Questa carità è forse già perfetta al momento stesso in cui nasce? Essa incomincia ad esistere ma le occorre un perfezionamento; viene perciò nutrita, irrobustita e dopo di ciò raggiunge la sua perfezione. È allora che essa esclama: Per me vivere è Cristo e la morte è un guadagno. Desideravo morire per essere con Cristo: è di gran lunga la cosa migliore: tuttavia è necessario per vostro bene che io rimanga nella carne (Fil 1,21-24). Egli voleva vivere per quelli in favore dei quali era pronto a morire.

[Imitare la carità di Cristo.]
5. Per far sapere che questa è la perfetta carità che l’uomo nato da Dio non viola e contro la quale non pecca, il Signore disse a Pietro: Pietro, mi ami tu? Rispose: Ti amo (Gv 21, 17). Egli non gli disse: Se mi ami, obbediscimi. Il Signore, quando era in questa nostra carne mortale, sentiva la fame e la sete e in quel tempo egli accettò l’ospitalità: quelli che ne avevano la possibilità gli offrirono le loro cose, come leggiamo nel Vangelo (cfr. Lc 8,3). Zaccheo lo ricevette in casa e fu dal medico, che aveva accolto, guarito dalla malattia. Quale malattia? Quella dell’avarizia. Era una persona ricchissima, un capo dei pubblicani. Ma vedetelo risanato dalla malattia dell’avarizia. Disse: Io do ai poveri la metà dei miei beni; e se a qualcuno rubai qualcosa, gli restituisco il quadruplo (Lc 19,8). Conservò per sé l’altra metà, non per godersela ma per pagarsi i debiti. Egli accolse il medico in casa: infatti anche il Signore era soggetto alla fragile condizione carnale, cosicché gli uomini potessero prestargli tale ossequio; e questo perché voleva il Signore ricambiare coloro che lo ossequiavano: fu lui, infatti, a giovare loro, e non loro a lui. Non è egli il Signore al quale gli Angeli prestano servizio? Aveva forse bisogno di essere assistito dagli uomini? Elia stesso, che era suo servitore, poté a volte fare a meno di una assistenza del genere, poiché Dio gli mandava pane e carne attraverso un corvo. Ma in altra occasione, per portare a una pia vedova la divina benedizione, questo servo di Dio viene mandato da lei e si fa rifocillare, lui che era nutrito segretamente dal Signore stesso (cfr. 1 Sam 17,4-9). È vero che i soccorritori dei servi di Dio che prendono a cuore i loro bisogni, fanno il proprio interesse, perché hanno in mente il premio che il Signore promette loro nel Vangelo con chiarissime parole: Chi accoglie un giusto, perché tale, riceverà la ricompensa del giusto; e chi riceve un profeta, perché profeta, riceverà la ricompensa di un profeta; e chi darà un bicchiere di acqua fresca ad uno di questi piccoli, perché sono miei discepoli, vi assicuro, non perderà la ricompensa (Mt 10,41-42). È vero dunque che si diportano in questo modo per il proprio interesse, ma, se il Signore doveva ascendere in cielo, essi non potevano più rendergli neppure questi servizi. Pietro che lo amava che cosa poteva rendergli in cambio? Questo: Pasci le mie pecore (Gv 21,15); cerca cioè di fare per i fratelli ciò che io feci per te. Io li ho redenti tutti col mio sangue; non esitate allora a morire per confessare la verità, e gli altri vi imiteranno.