Nel portico della gloria

CULTURA - SANTIAGO DE COMPOSTELA
Giuseppe Frangi

Un immenso «libro di pietra». Che parla ad ogni pellegrino che lo attraversa. Ma che cosa dice? Nell’Anno Santo del Cammino di Santiago, un saggio e una mostra indagano ogni dettaglio dello straordinario Portico della Cattedrale. Dai significati del capolavoro romanico all’umile firma del grandioso Maestro Matteo. Che ha saputo scolpire «lo splendore della speranza»

Più che un libro d’arte o un libro di cultura religiosa questo sembra un vero libro d’inchiesta. Un’inchie-sta condotta attorno ad uno dei monumenti più celebri e più venerati della tradizione cri-stiana: il Portale della Gloria, aperto sulla facciata occidentale della Cattedrale di Santiago di Compostela. Tutti sanno della straordinaria capacità di attrattiva che questo luogo ha e-sercitato per secoli, meta di pellegrinaggi per milioni di fedeli (ma non solo). Chiunque ci sia andato almeno una volta conosce quella semplice ritualità che accompagna l’arrivo e l’ingresso in Cattedrale proprio attraverso questo grandioso Portico. Ma poco si conosce dei significati che questo monumento vuole comunicare a chi lo attraversa. Come un immenso libro di pietra, il Portico dia-loga, parla con i pellegrini. Già, ma che cosa dice loro?
È questo il tema dell’inchiesta che Félix Carbó ha realizzato e che ora, nell’Anno Santo Giacobeo, diventa un libro (El Pórtico de la Gloria. Misterio y sentido), un sito (www.porticodelagloria.com) e una mostra do-cumentaria (v. box, pagina a fianco). Il tutto con il supporto di una campagna fotografica straordinaria che permette di “stanare” anche particolari in apparenza secondari.
L’inchiesta prende avvio cercando di spiegare un’ano-malia che riguarda la storia del Portico: perché seguendo le tracce storiche risulterebbe che l’attuale Portale non sarebbe quello orginario della Cattedrale finita intorno al 1122, come riferisce Ayme-ric Picaud, un monaco cronista vissuto in quel periodo, nel Códice Calixtino. In realtà il Portico che noi vediamo è opera del celebre Mae-stro Matteo, vissuto 50 anni dopo, come attestano numerosi documenti e come conferma in modo incontrovertibile la firma apposta in latino all’intera opera: «Nell’anno dell’Incarnazione del Signore 1188, il giorno 1 aprile, furono collocate da Maestro Matteo le architravi del portale maggiore della chiesa di Santiago». Perché il Portico sarebbe stato rifatto a distanza di pochi decenni, prolungando tra l’altro la Cattedrale di una campata? L’ipotesi di Carbó è che si sia trattato di una decisione presa da «chi aveva l’autorità sul cantiere della Cattedrale», avendo giudicato la precedente porta «non adeguata a rappresentare la potenza della Gloria di Cristo».

Chiave di volta. Così entra in scena il Maestro Matteo, un personaggio che a guardare i documenti doveva godere di enorme prestigio, se è vero che nel 1168 il re Ferdinando II, che regnava su Leon, Galizia e Asturie gli aveva assegnato un ricco vitalizio. Ferdinando II era figlio di Alfonso VII, a sua volta nipote di papa Callisto II, il papa che nel 1126 aveva istituito l’Anno Compostelano, cioè un “anno santo” che cadeva ogni qualvolta la festa di san Giacomo capitava di domenica. Per Santiago era cominciato un periodo di straordinaria fioritura culturale, che aveva fatto convergere qui, tra gli altri, alcuni tra i migliori architetti e scultori d’Europa.
Ed è nel cuore di una città così vitale che si inserisce la grande impresa di Maestro Matteo. Il Portico della Gloria è un insieme di rara ricchezza e complessità, con oltre 200 figure; la sua struttura architettonica s’impone con una tale forza da diventare quasi centro della chiesa stessa a cui introduce. È costituito di tre aperture: a sinistra la porta della Vecchia Alleanza, coronata dalla rappresentazione del Limbo, a destra quelle della Nuova Alleanza, coronata dal Purgatorio. Al centro, l’apertura più maestosa è quella dedicata alla Gloria di Cristo. Ed è in particolare su questa che si trova la chiave per capire l’intero significato del Portico: domina la scena un grande Cristo in maestà, che pare ispirarsi al modello bizantino del Cristo Pantocratore. Ma a differenza della iconografia bizantina, qui Cristo non è isolato nella mandorla, ed è circondato da una quantità di figure in azione. Innanzitutto ci sono i quattro evangelisti, tutti colti nell’atto di scrivere, come veri cronisti di una corte regale. Poi ci sono gli angeli che mostrano i simboli della passione. Nella parte in alto la presenza forse più inattesa: quella del popolo. A sinistra il popolo di Israele, a destra il popolo cristiano. «La genialità di Mae-stro Matteo realizza una composizione del tutto nuova», spiega Félix Carbó. «Il Cristo del Portico è un Cristo Pantocratore, ma è un Cristo con il suo popolo». E il fatto di aver dato spazio uguale al popolo ebraico, viene spiegato con il rife-rimento contenuto nella Lettera agli Efesini: «Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2,14).

La certezza di un popolo. Altro punto enigmatico del Portico è senz’altro la figura posta sul retro del montante centrale che divide l’arco maggiore. Sul fronte del montante c’è la celebre figura di san Giacomo; sul retro, invece, c’è una figura inginocchiata di penitente che è rivolta verso l’altare maggiore. Per antica tradizione si è sempre pensato che questo fosse un autoritratto di Mae-stro Matteo, la cui popolarità era tale da attribuirgli addirittura la fama di santo. Secondo attestazioni antiche, nel rotolo di pergamena che tiene nella sua sinistra, un tempo si leggeva la parola “architectus”. Mentre sulla stessa pietra si legge ancor oggi una “f“ iniziale che starebbe per “fecit”. Dunque ci sono molte probabilità che si tratti davvero del Maestro Matteo: un fatto quasi unico nella scultura medievale, che in genere tendeva ad annullare le individua-lità nella dimensione collettiva dell’opera.
A Santiago l’individualità spicca come capacità di cogliere più in profondità una certezza che era di tutto un popolo. «Questa immagine fa risaltare le caratteristiche del personaggio», spiega Félix Carbó, «peni-tente e umile di fronte al Mistero. In un certo senso è davvero la sua firma».

La scelta di Matteo. L’inchiesta di Félix Carbó ovviamente si compone di moltissimi altri tasselli, i cui significati vengono di volta in volta affrontati, e quasi sempre chiariti con certezza. Alla fine del suo viaggio l’autore cita un passaggio dell’enciclica di Benedetto XVI, la Spe salvi, come chiave per capire l’attualità che il Portico della Gloria conserva anche per gli uomini del nostro tempo. Dice il Papa che spesso gli artisti hanno avuto la tentazione di far prevalere l’aspetto «minaccioso e lugubre» del giudizio sulla rappresentazione dello «splendore della speranza». Maestro Matteo è uno di quegli artisti che senza esitazioni ha scelto di dare forma di pietra allo «splendore della speranza».