Salinger con la figlia Margaret.

SALINGER Ma chi era davvero il giovane Holden?

Il 27 gennaio è scomparso Jerome David Salinger. Un ricercatore di Linguistica italiana ci ha inviato questo articolo. Lo pubblichiamo come contributo al dibattito su quello che di sicuro resta uno degli scrittori più discussi del Novecento.
Marco Giani

Muore una delle icone letterarie del Novecento americano, e i mass media di tutto il mondo si riempiono di elogi; ma forse non tutti si accorgono che se ne va un uomo col suo dramma umano. Causa la sua apparente facilità di lettura, non ci vuol poi molto ad innamorarsi “senza ragioni” (oppure a rimanerne disgustati, l’altra faccia della medaglia) del romanzo che gli ha dato celebrità, Il giovane Holden. La cosa veramente difficile è scavare la crosta dell’apparenza, ed entrare un dialogo “da uomini a uomini”, senza sconti da nessuna delle due parti, con la sempreverde creatura letteraria di Jerome David Salinger (1919-2010).

L’ardua Odissea dell’inquieto
Il romanzo, pubblicato nel 1951, si inserisce dentro la grande tradizione del Bildungsroman occidentale, in particolare all’interno del filone americano, molte, infatti, le analogie con quel Le Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain che ad una prima lettura sembra “solo” un libro per ragazzi. Anche qui abbiamo un adolescente (Holden Caulfield) che scappa da una situazione soffocante (la scuola da cui è stato espulso per l’ennesima volta), gettandosi in un viaggio nel “mondo là fuori” (la New York del secondo dopoguerra, luccicante all’apparenza, quanto squallida nelle sue interiora). Tuttavia, rispetto ad opere come l’Odissea o la Commedia, sono tanti gli elementi di questa tradizione che si son persi strada facendo. Prima di tutto, non c’è alcuna meta: Holden vaga a tentoni, erra senza una direzione che si deve creare di volta in volta. Secondo aspetto, fortemente collegato: il ragazzo non ha a disposizione nessuna guida, nessun Virgilio che rischiari il cammino. L’unica bussola rimasta è una inquietudine, a volte nervosa, a volte celata sotto una ironia “da grande” in realtà paravento della propria disperazione, tentativo di non farsi ferire dalle cose brutte. Perché è proprio questo il problema del suo viaggio. Holden guarda, scruta, giudica qualunque cosa gli passi sotto gli occhi, ma l’aggettivo predominante di queste descrizioni è phony ("falso", "non sincero", "inautentico"). Phonies sono i coetanei (sbruffoni, noiosi, egocentrici) ma soprattutto gli adulti, anche quelli che hanno successo o potere, persino quelli convinti di aiutare gli altri. Holden, in una sarabanda di incontri che ricorda quella del Piccolo Principe con gli abitanti solitari dei vari pianeti, usa la propria ferita come pietra di paragone. Lontano dall’essere semplicemente un adolescente sull’orlo di una depressione (troppo comodo chiudere così la partita...), egli non si limita a dire di no, ma è pronto a riconoscere volentieri tutto ciò che di nice ("bello") trova sul cammino. Per quanto molto di rado e quasi sempre maledettamente di passaggio, infatti, esistono alcune figure davanti alle quali la sua caustica ironia è come costretta a fermarsi e a fare un passo indietro, facendo spazio a degli interrogativi che poi non lo lasciano indifferente. Le due suore che incontra alla stazione, ad esempio. Holden in un primo momento cerca di incanalarle nel proprio schema - per quanto generoso -, e si offre di aiutarle con le valige, e già che c’è di dare loro un’offerta per i poveri. Nel successivo dialogo, tuttavia, una delle due, insegnante di Inglese, arriva a chiedergli un giudizio personale su quel Romeo e Giulietta che Holden dice di aver letto in classe. Holden, lasciate le due religiose, ha in mano tutti gli strumenti per capire, ad esempio, la differenza fra loro e la zia che fa delle collette per i poveri (quest’ultima di sicuro non “rimarrebbe in piedi” di fronte all’indifferenza dei passanti), o per notare con felicità quanto le due fossero totalmente libere di fronte a lui, tanto da resistere addirittura alla classica tentazione dei cattolici (chiedergli se anche lui apparteneva alla loro stessa “parrocchia”). Quali sono questi strumenti che il nostro novello Ulisse si ritrova in mano per la sua navigazione? Il proprio cuore (proprio lui che si dichiara ateo...), ma soprattutto uno sguardo attentissimo ai particolari della realtà: un certo tipo di valigie, un tic, la reazione di fronte ad una domanda, l’optare per una certa parola piuttosto che per un’altra. Cose infime che però dicono già tutto, smascherano le parole e le ideologie con cui i grandi tentano di “condire” la realtà. Come se per uno strano miracolo a Holden fosse rimasto, a sedici anni, lo sguardo del bambino.

L’innocenza dei più piccoli
I bambini, appunto. Holden non è più un bambino, ma pare che praticamente tutto il mondo degli adulti sia dominato dalla phoniness: nessuno, nemmeno le amiche più vicine, capisce la sua lunghezza di onda, e così eccolo collezionare di volta in volta delusioni, litigi, più in generale incomprensioni. Non così il mondo dei bambini, dominato dall’unica vera ed autentica figura totalmente positiva, la sorellina Phoebe (la successiva narrativa di Salinger, purtroppo, si fossilizzerà non senza una certa ossessione attorno a queste figure di bambini-genio, causa anche l’influenza delle “nuove” filosofie dall’Oriente). I bambini, nel loro strano modo di rapportarsi alle cose e alle persone hanno in realtà quella sincerità, quell’autenticità, quella passione per le cose belle anche se apparentemente insignificanti che Holden cerca disperatamente in figure adulte. Phoebe, insomma, affascina non perché bambina ingenua e boccalona: anzi, a tratti ha attitudini, capacità intellettuali ed una coscienza già da adulta, ma ha conservato l’innocenza di sguardo dell’infanzia. Il romanzo così si fornisce una nuova versione di un vecchio mito, quello del “bimbo innocente”, a sua volta riscrittura tipicamente americana di quel “buon selvaggio” che ha caratterizzato la crisi di coscienza della modernità occidentale.

Il burrone senza un Virgilio
Durante un dialogo fra i due la sorellina, dopo aver accusato Holden di inconsistenza, gli domanda a bruciapelo cosa voglia fare da grande. Per una volta Holden cede, senza bleffare o difendersi, forgiando così quella stramba immagine che dà il titolo originale all’opera (The Catcher in the Rye). Vorrebbe aiutare gli altri, ma sul serio - non facendo finta come il loro papà, avvocato di successo. Vorrebbe essere colui che acchiappa (il catcher, appunto) i bambini che giocano da soli - “senza nessuno di grande, intendo” - nel campo di segale (rye), per evitare che cadano nel burrone: porsi insomma come guardiano dell’innocenza dei più piccoli, messa in pericolo dal mondo dei phonies, degli adulti. Dopo che ci ha provato in tutti i modi e con chiunque, Holden si è ormai rassegnato: crescere sarà per forza diventare phony, a meno di improbabili isolamenti totali, come le figure dei sordomuti, vagheggiate in un altro punto del romanzo. Attenzione, però: chiunque voglia leggere senza pregiudizi il libro si accorgerà come questa non sia la proposta di Holden; tanto che egli stesso, successivamente, si renderà conto della fragilità utopica di questo sogno di fronte al male del mondo. Si tratta piuttosto del meglio che riesca a racimolare, nel deserto in cui si trova a vivere, un ragazzo tutto dominato da una sete incontrollabile ed incontrollata, sempre più soffocante col passare delle pagine, impossibilitata a trovare qualche punto di appoggio se non quando addirittura di rilancio. Manca un Virgilio che mostri “nella carne” (non solo con le parole, come fanno i “grandi”, in primis i professori) un’età adulta la quale, non dimenticando quello sguardo innocente sulle cose, riesca addirittura ad inverarlo, a portarlo ad un compimento che supera qualsiasi immagine da sedicenne.
La ricerca inappagata di Holden rimane tuttora una inquieta ed inquietante provocazione, soprattutto oggi, per noi che siamo figli e nipoti di quella generazione; certo, a patto di non ridurla come tanti in questi giorni ad una idiota celebrazione dell’adolescenza eterna. Si possono cioè rileggere queste pagine con una tentazione: non prendere sul serio gli interrogativi, apparentemente così strambi per la forma che talvolta confusamente prendono, ma sotto la scorza così brucianti, del giovane rampollo di casa Caulfield.