Francisco Goya, <em>San Gregorio Magno</em>.

CARITÀ E TRADIZIONE Quell'invito alla festa dove regna l'amore

Terzo contributo per approfondire il lavoro di Scuola di comunità. Nella basilica di san Clemente, Gregorio Magno commenta la parabola del banchetto del re. E spiega qual è la veste necessaria per entrare...
Giuseppe Bolis

Ci troviamo a Roma nella basilica di san Clemente, una delle basiliche paleocristiane più antiche della città eterna (ancor oggi visitabile). Essa era una delle prime domus Ecclesiae ovvero le case dei primi cristiani trasformate in chiese, e più precisamente quella del terzo vescovo di Roma successore di Pietro.
È agosto del 592 e la comunità, pur accaldata, è riunita per ascoltare la parola del nuovo Vescovo, Gregorio, che solo due anni prima aveva preso in mano le sorti della Chiesa da lui stesso definita «una barca sballottata nel mare della storia». I tempi, infatti, sono infausti: i barbari scorrazzano ormai senza più freno per quello che era l’Impero d’Occidente. Le devastazioni non si contano: città distrutte, monasteri violati, e - come se non bastasse - la peste che semina morte.
Il Vangelo proclamato nella liturgia è quello della parabola di Gesù che narra del banchetto imbandito dal re (Mt 22,1-13). L’occasione è preziosa per educare il popolo alla vita cristiana nella sua completezza: il Vescovo interpreta la veste nuziale necessaria per entrare nella sala del banchetto come la carità, tessuta con filo indistruttibile sul telaio del duplice comandamento dell’amore. Senza di esso infatti non si accede al convito offerto da Cristo: alla festa comune sono stati invitati tutti gli uomini battezzati che hanno la fede, ma sono ammessi ad entrare solo coloro che hanno rivestito la loro ragione (mens) della carità che li induce a riconoscere e ricambiare quell’amore infinito che è la ragione dell’incarnarsi di Cristo e della redenzione. È Lui, infatti, che per primo ha assunto la tunica nuziale dell’amore, incarnandosi e morendo per l’uomo.


GREGORIO MAGNO, omelia II, 38, 9-12
9. Occorre far di tutto per non presentarsi al convito di nozze senza la veste nuziale
Siccome però, per grazia del Signore, già siete entrati nella casa delle nozze, cioè nella santa Chiesa, fate di tutto perché il re, entrando, non trovi qualcosa da disapprovare nelle disposizioni della vostra mente. Con il timore nell’anima dobbiamo riflettere alle parole che si leggono: il re poi entrò per vedere i commensali e si accorse di un uomo che non portava l’abito nuziale. Cosa indica, secondo noi, fratelli carissimi, la veste nuziale? Se diciamo che indica il battesimo o la fede, chi partecipò a questo convito di nozze senza di essa? Chiunque infatti ancora non crede, è per ciò stesso fuori. Cosa allora potrà indicare la veste nuziale se non la carità? Entra infatti nella sala del banchetto senza l’invito nuziale, chi stando nella santa Chiesa ha la fede ma non la carità. È esatto chiamare la carità col nome di veste nuziale, perché il nostro Creatore ne fu rivestito quando celebrò le nozze con cui si unì alla santa Chiesa. Solo, infatti, l’amore di Dio fece in modo che il suo Unigenito unisse a sé la mente degli eletti, come scrive Giovanni: Dio ha talmente amato il mondo da dare il Figlio suo Unigenito per noi (Gv 3,16). Questi dunque, venuto tra gli uomini spinto dall’amore, ci ha reso noto che la carità è l’abito nuziale. Ognuno di voi dunque, che nella Chiesa ha fede in Dio, già ha preso parte al banchetto di nozze, ma non può dire di avere la veste nuziale se non custodisce la grazia della carità. Certamente, fratelli, quando uno è invitato a un rito di nozze qui sulla terra, cambia il vestito per mostrare anche con l’eleganza dell’abito di sentirsi unito alla gioia dello sposo e della sposa, e prova vergogna ad apparire trasandato nelle vesti in mezzo alla gioia di chi partecipa alla festa. Noi invece partecipiamo a un rito divino di nozze e non ci curiamo di mutare la veste del cuore. Gli angeli sentono una gioia comune quando gli eletti entrano in Paradiso. Con quale animo allora potremo partecipare a queste feste spirituali se siamo privi della veste nuziale, cioè della carità, che sola ci dona decoro e bellezza?

10. I due precetti della carità
Occorre anche ricordare che come un vestito è intessuto con due legni, uno in alto e un altro in basso, così la carità è presentata in due precetti, cioè nell’amore di Dio e in quello del prossimo. Sta scritto infatti: amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, e il prossimo tuo come te stesso (Mc 12,30). In queste parole dobbiamo notare che per l’amore del prossimo si fissa un termine di confronto quando si dice: amerai il prossimo tuo come te stesso, mentre all’amore di Dio non è posto alcun limite: amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Non ci viene quindi fissata la misura dell’amore, ma si esprime l’assenza del limite con le parole: con tutto, perché ama veramente Dio chi non si riserva nulla di proprio. È dunque necessario che osservi questi due precetti della carità chi si preoccupa di andare a nozze con la veste nuziale. Per questo, in un passo del profeta Ezechiele (Ez 40,9), il vestibolo della porta della città costruita sul monte misura due cubiti, perché non ci è concesso di entrare nella città celeste, se nella Chiesa presente, chiamata vestibolo perché ancora al di fuori della città eterna, non pratichiamo l’amore di Dio e del prossimo. Ancora per questo Dio comandò che nelle cortine del tabernacolo fosse intessuto il cocco tinto due volte. Siete voi le cortine del tabernacolo, fratelli, che nel vostro cuore velate nella fede i segreti celesti. In esse dunque deve trovarsi il cocco tinto due volte e questo cocco ha l’aspetto del fuoco. Che cos’è la carità se non un fuoco? Essa deve tingersi due volte, nell’amore di Dio e in quello del prossimo. Chi infatti ama Dio e si dà alla contemplazione ma poi trascura il suo prossimo, è come il cocco ma non ha la doppia tintura, della quale è pure privo, pur essendo ancora come il cocco, chi ama il prossimo ma con un amore che lo porta lontano dalla contemplazione di Dio. La vostra carità quindi potrà essere come il cocco tinto due volte, se arde nell’amore di Dio e in quello del prossimo, se cioè soccorrendo i fratelli non lascia di contemplare Dio e nella contemplazione di Dio non trascura l’aiuto al prossimo. Ogni uomo quindi, vivendo tra i suoi simili, aneli a Dio, meta dei suoi desideri, in modo da non abbandonare il fratello con cui unisce i suoi passi e a questi dia il suo aiuto in modo da non cedere alla pigrizia mentre si affretta nel cammino verso Dio.

11. Due sono i precetti dell’amore del prossimo
Bisogna pure tener presente che anche l’amore del prossimo è contenuto in due precetti. Un sapiente infatti dice: procura di non fare ad alcuno ciò che ti spiace ricevere da altri (Tb 4,16), e la Verità afferma chiaramente: ciò che desiderate ricevere dagli uomini, fatelo verso di loro (Mt 7,12). Se dunque facciamo agli altri ciò che secondo giustizia vorremmo reso a noi ed evitiamo di compiere verso il prossimo quello che non vorremmo da esso ricevere, conserviamo illesi i diritti della giustizia. Nessuno tuttavia, quando ama qualcuno, ritenga di possedere senz’altro la carità se prima non esamina la natura e la forza del suo amore. Se infatti ama qualcuno ma non secondo Dio, non ha la carità, ma si illude di averla. La vera carità consiste nell’amare l’amico in Dio e il nemico a motivo di Dio. Questo amore reso agli altri a motivo di Dio si attua da parte di chi sa amare anche coloro da cui non è amato. La carità infatti è davvero messa alla prova solo dall’ostilità e dall’odio. Per questo il Signore stesso ci comanda: amate i vostri nemici, beneficate quelli che vi odiano (Lc 6,27). Possiede dunque l’amore perfetto chi, a motivo di Dio, ama colui dal quale capisce di non essere amato. È questo un grande precetto, sublime e, per molti, di difficile attuazione; ma si tratta della veste nuziale. Chi alle nozze si trova fra i commensali senza questo abito nuziale, tema e già si prepari ad essere cacciato via dal re, quando questi entrerà. Leggiamo infatti: il re, poi, entrò nella sala del banchetto per vedere i commensali e si accorse di un uomo che non portava l’abito nuziale (Mt 22,11). Siamo noi, fratelli carissimi, gli invitati a queste nozze del Verbo, noi che, nella Chiesa, abbiamo la fede, che ci nutriamo al banchetto delle sacre Scritture, che godiamo perché la Chiesa è congiunta con Dio. Chiedetevi, vi prego, se siete venuti a queste nozze coll’abito richiesto e sottoponete i vostri pensieri ad un attento esame. Scrutate fin nell’intimo il vostro cuore su tutto, chiedendovi se avete dell’odio contro qualcuno, se vi sentite ardere nel fuoco dell’invidia di fronte all’altrui felicità, se vi prende la brama di far del male al prossimo cercando in segreto la sua rovina.

12. In caso contrario si dovrà essere attentamente esaminati e puniti con severità da Cristo
Ecco che il Re entra nella sala del banchetto, osserva le disposizioni del nostro cuore e se scorge qualcuno senza l’abito nuziale della carità, lo riprende severamente: amico come sei entrato qui senza la veste nuziale? (Mt 22,12). Proviamo meraviglia, fratelli carissimi, vedendo che costui è chiamato amico ed è rimproverato, risultando, quindi, amico e nemico. Amico, infatti, fu quanto alla fede, nemico per l’atteggiamento assunto. Egli tacque: infatti nell’ultimo, rigoroso giudizio - non possiamo pensarvi senza gemere - nessun motivo di scusa resterà valido, perché saremo apertamente accusati dalla testimonianza della coscienza che si porrà contro di noi. Non dobbiamo però dimenticare che se qualcuno indossa questa veste della virtù ma non in modo perfetto, non deve disperare del perdono all’ingresso del Re misericordioso, che ci infonde speranza attraverso la parola del Salmista: i tuoi occhi hanno visto la mia debolezza e nel tuo libro tutti saranno scritti (Sal 138,16).