Akira Kurosawa (1910-1998).

KUROSAWA Quel samurai che si ostina a credere nell'uomo

È stato il più importante regista nipponico del '900. Da lui anche Sergio Leone ha preso ispirazione (e forse qualcosa di più...). A cento anni dalla nascita, ecco il cammino di un artista che ha raccontato la storia del Giappone con un occhio neorealista
Luca Marcora

Venezia, 1951. Al termine della 16ª Mostra internazionale d'arte cinematografica viene assegnato il Leone d’oro per il miglior film a Rashomon, pellicola realizzata dal giapponese Kurosawa Akira. La sorpresa è grande, ma in realtà l’inattesa vittoria non solo rivela una personalità tra le più significative del mondo asiatico, ma soprattutto rende manifesta la totale ignoranza del mondo occidentale nei confronti di una cinematografia estremamente vivace e prolifica, quale era quella giapponese.
Kurosawa nasce nel 1910, discendente da una nobile famiglia di samurai. Il fratello Heigo, di quattro anni più grande, segna profondamente la giovinezza del futuro regista, introducendolo a quelle che diventeranno le passioni determinanti della sua intera vita: letteratura, pittura e soprattutto quel cinematografo presso cui lui stesso svolge la professione di benshi, il narratore-commentatore che in Giappone era solito accompagnare con la voce le proiezioni dei film muti. Con l’avvento del cinema sonoro la professione del benshi decade in brevissimo tempo; per Heigo si tratta di una crisi che lo porta al suicidio a soli 28 anni, lasciando un vuoto incolmabile nel giovane Akira che nel frattempo si stava dedicando alla pittura. Nel 1936 seguendo le orme del defunto fratello, entra nel mondo del cinema diventando assistente dei maggiori registi dell’epoca.
Sette anni di collaborazioni gli permettono di esordire nel 1943 con una pellicola che, almeno sulla carta, sembra adatta a celebrare lo spirito combattivo di un Giappone militarizzato, già alleato della Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale. Sugata Sanshiro, storia dai toni leggendari sulle origini del judo, è in realtà un film denso di valori come solidarietà e amicizia, sentimenti che la commissione di censura non vede di buon occhio; ma il successo di pubblico è tanto clamoroso da spingere la produzione a realizzare un seguito della pellicola.
Seguono Lo spirito più elevato (1944), film questa volta su commissione incentrato sul lavoro di un gruppo di operaie dalla forte dedizione alla patria, quindi Sugata Sanshiro II (1945), e la riduzione di un noto dramma del teatro kabuki, Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre (1945), prima incursione in quel genere jidaigeki (dramma storico in costume) a cui Kurosawa legherà indissolubilmente la propria fama subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki mettono fine a qualsiasi velleità del Giappone. Kurosawa rivolge fin da subito la sua attenzione al periodo oscuro da cui l’intera nazione è appena uscita e realizza due opere straordinariamente in sintonia con i fermenti dell’allora nascente cinema neorealista italiano: Non rimpiango la mia giovinezza (1946) e Una meravigliosa domenica (1947), raccolgono il grido e l’angoscia di una generazione che ha visto infrangersi i propri sogni ed è costretta a ripartire da zero per costruirsi una vita. Kurosawa si rivela un attento osservatore dell’animo umano e ancora di più lo dimostra nei successivi L’angelo ubriaco (1948) e Cane randagio (1949), nei quali inizia anche il fecondo sodalizio con l’attore Mifune Toshiro. Le due pellicole preannunciano le tematiche che ricorreranno spesso nell’opera del regista: un’attenzione costante alle classi più disagiate, raccontate da una cinepresa che non si ritrae davanti a nulla nella perlustrazione di quei “bassifondi” comuni a molte altre simili vicende, e soprattutto un’incrollabile fiducia nell’uomo, testimonianza del profondo umanesimo che anima l’autore. Il duello silenzioso (1949) e Scandalo (1950) chiudono il primo periodo della carriera del regista, caratterizzato dall’osservazione attenta ed appassionata di un mondo colto nel pieno di un mutamento epocale.
Il nome di Kurosawa Akira esplode a Venezia grazie a Rashomon (1950): a partire da un racconto di Akutagawa Ryunosuke, il regista realizza un film moderno, dove la storia di un samurai ucciso nel bosco viene raccontata da quattro differenti punti di vista, nessuno dei quali è forse attendibile. L’uomo mente per il proprio tornaconto, ma resta sempre aperta la possibilità di un riscatto come testimonia il finale, tutt’altro che consolatorio, dove Kurosawa rivela la sua visione del mondo attraverso quella che è una vera e propria «professione di fede di un umanista non poco scettico che si ostina a credere nella solidarietà umana nonostante tutto» (Tassone).
La fama di maestro del cinema si consolida poi grazie a una serie di pellicole appartenenti al genere jidaigeki, oggi considerate unanimemente tra i classici dell’intera storia del cinema. I sette samurai (1954), enorme e animato affresco di più di tre ore ambientato durante le guerre civili del XVI secolo; Il trono di sangue (1957) riduzione in chiave di teatro No del Macbeth di Shakespeare; I bassifondi (1957), tratto da un’opera dello scrittore russo Maksim Gorkij (L’albergo dei poveri), in cui Kurosawa dimostra di saper amministrare un’ampia varietà di registri narrativi oltre a una sceneggiatura fitta di personaggi osservati con simpatia e autentica adesione. Una ulteriore conferma delle doti di eccellente narratore arriva poi da un gruppo di pellicole improntate alla pura azione: La fortezza nascosta (1958), La sfida del samurai (1961) e il suo sequel, Sanjiuro (1962), diventano subito punti di riferimento del cinema d’avventura tanto da essere citate, quando non copiate, dai registi di tutto il mondo. Il famosissimo Per un pugno di dollari (1964) di Sergio Leone non è altro che una versione in chiave western de La sfida del samurai, cosa che i giapponesi non gradirono molto, tanto da fare causa per plagio alla produzione italiana.
Narratore epico, ma anche attento osservatore della società, il regista non trascura il genere gendaigeki, il dramma di ambientazione contemporanea: L’idiota (1951), tratto dall’amato Dostoevskij, Vivere (1952), Testimonianza di un essere vivente (1955), osservano con attenzione il Giappone post-bellico lacerato tra tradizione millenaria e modernizzazione incalzante.
I film successivi prendono invece atto di questo ormai irreversibile cambiamento: I cattivi dormono in pace (1960) e Anatomia di un rapimento (1963), scavano nel male e nella corruzione di un corpo sociale che ha perso se stesso nel nome del profitto e del proprio tornaconto, attraverso una messa in scena estremamente realistica e allucinata, che ben rende l’idea di un mondo diviso tra il paradiso di una classe agiata e l’inferno di chi è lasciato da solo a vivere una vita ai limiti della decenza.
Nel 1965 con Barbarossa, Kurosawa torna alle dimensioni del grande affresco, indubbiamente perfetto, sia nella struttura che nella ricostruzione storica; ma la critica gli rimprovera di aver pianificato troppo questo “nuovo capolavoro” a scapito della freschezza dei film precedenti.
Per Kurosawa inizia un periodo di crisi. Dapprima, l’esclusione dal progetto nippo-americano Tora! Tora! Tora!, segnato da incomprensioni tra il produttore americano Darryl Zanuck e il regista giapponese, il cui metodo di lavoro ha ben poco a che fare con le logiche produttive delle majors statunitensi, e quindi il fallimento del suo primo film a colori Dodès’ka-dèn (1970), lo conducono ad una tanto insospettata quanto profonda crisi personale. Nel 1971, a seguito di una forte depressione, Kurosawa tenta il suicidio; si salva, ma la sua carriera sembra essere giunta irrimediabilmente a un vicolo cieco.
Eppure l’apparizione sugli schermi di Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure nel 1975, prodotto grazie ai capitali messi a disposizione dall’Unione Sovietica, restituisce un Kurosawa nuovamente appassionato alla vita, padrone del suo consueto sguardo poetico, ora con in più una profonda serenità.
Nonostante la recuperata forma, nella generale crisi dell’industria cinematografica giapponese, è difficile anche per Kurosawa trovare finanziamenti per nuovi progetti. Grazie all’apporto di Francis Ford Coppola e George Lucas nel 1980 riesce a realizzare Kagemusha - L’ombra del guerriero che, assieme al successivo Ran (1985), coproduzione franco-nipponica ispirata al Re Lear di Shakespeare, rappresentano il vertice del regista nel campo dei jidaigeki, sia dal punto di vista pittorico che narrativo. Mai nella storia del cinema il caos del Giappone feudale era stato rappresentato con tanta forza visionaria come in questi due film che rappresentano senza dubbio uno dei rari eventi cinematografici degli anni ’80.
Kurosawa realizza altre tre pellicole prima di spegnersi il 6 settembre 1998: Sogni (1990), Rapsodia in agosto (1991) e Madadayo - Il compleanno (1993). A queste vanno aggiunti due film “postumi”, dai toni più sereni, realizzati dai suoi collaboratori sulla base di sceneggiature già completate dallo stesso regista: Ame agaru (Koizumi Takashi, 1999 – lett. Dopo la pioggia, inedito in Italia) e Il mare e l’amore (Kumai Kei, 2002).


Pellicole consigliate

L’angelo ubriaco (Yoidore tenshi, 1948)
Cane randagio (Nora inu, 1949)
Rashomon (idem, 1950)
I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954)
Il trono di sangue (Kumonosu-jo, 1957)
La fortezza nascosta (Kakushi-toride no san-akunin, 1958)
La sfida del samurai (Yojimbo, 1961)
Vivere (Ikiru, 1952)
I cattivi dormono in pace (Warui yatsu hodo yoku nemuru, 1960)
Anatomia di un rapimento (Tengoku to jigoku, 1963)
Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure (Dersu Uzala, 1975)
Kagemusha - L’ombra del guerriero (Kagemusha, 1980)
Ran (idem, 1985)
Sogni (Akira Kurosawa’s Dreams, 1990)