Il filosofo Giulio Giorello.

«Il bisogno di Dio? C'è, ma non me lo spiego»

«Non mi inginocchierò mai, neppure davanti a Dio», dice il filosofo Giulio Giorello. Che ha appena scritto un libro. Per dimostrare che «l'uomo può fare a meno dell'Altro». Intervista a un ateo «in continua ricerca»
Fabrizio Rossi

Si definisce ateo, ma ama leggere e rileggere la Bibbia («e, le assicuro, mi spiace non sapere l’ebraico»). Al positivismo di Auguste Comte preferisce la mistica di Giovanni della Croce. Ha scritto opere come Di nessuna chiesa e Lo scimmione intelligente, ma non sopporta gli anticlericali. Da parte di padre ha «lontane origini calviniste», eppure da ragazzo non ha voluto essere esonerato dall’ora di religione: «E così mi sono ritrovato al Berchet con un certo don Giussani...». Giulio Giorello, classe 1945, docente di Filosofia della scienza all’Università di Milano, ha appena pubblicato Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo. Dove l’intento non è dimostrare che Dio non esiste. Ma che l’uomo può farne a meno. Anzi, deve: se vuole essere libero. È un ateismo pratico, quello esercitato da Giorello. Non dogmatico. È il rifiuto di qualsiasi autorità sopra di sé. «L’ebbrezza di una totale autonomia», come si legge nel libro. Il dramma della dipendenza: fatta oggetto di letteratura e analisi, rappresenta la battaglia del “nuovo Illuminismo” contro ogni forma di sottomissione. E anche, quindi, contro quel «bisogno d’amore chiamato Dio».

Partiamo da questa pretesa di autonomia: da dove proviene?
Tutte le prove dell’esistenza di Dio implicano una sorta di sottomissione. Pascal, dopo aver esposto la famosa scommessa, si rivolge così all’ateo: «Se non ti ho convinto con questo argomento, mettiti in ginocchio e troverai la fede». Ecco, io non ho nessuna intenzione di inginocchiarmi di fronte a Dio. E nemmeno di fronte al progresso, alla lotta di classe, alla scienza, a un capo di partito... Questa è l’idea di autonomia e indipendenza che permea tutto il libro.

Ma questi esempi (progresso, scienza, lotta di classe…) sono proprio ciò che la Bibbia chiama “idoli”. Cosa le dice questa tradizione?
Io mi riconosco pienamente nella componente anti-idolatrica del cristianesimo. La ritrovo molto nei Vangeli, in alcuni passi di san Paolo e nel Vecchio Testamento. Per questo, non vorrei essere confuso con gli atei che pensano che ci si possa liberare di questa grande tradizione nata con Abramo: il loro è l’ateismo di Stato alla sovietica, una delle peggiori caricature che si possano fare della religione.

Lei come si definisce, allora?

Il mio è ateismo metodologico. Non è una questione di odio verso il Dio delle religioni monoteistiche, ma il rifiuto di mettermi in ginocchio. Ho passione per la fisica, la matematica e la biologia. Non mi sognerei mai, però, di dire che sono tre dèi di una religione della scienza. Così come non mi ritrovo in un certo ateismo contemporaneo, che dice: «Se Dio è morto, è il momento di divinizzare l’uomo». Non è un passo legittimo.

La sua opera si propone di dimostrare che l’uomo può fare a meno di Dio. Perché, allora, ogni uomo, in qualunque epoca, nasce con questo bisogno di Dio?
Bella domanda. In effetti, è l’obiezione più seria a quel che ho scritto. Sono state tentate molte spiegazioni, ma io ho preferito non addentrarmi nell’argomento. Certo, constato un fatto: in ogni cultura c’è un bisogno del divino, più come bisogno di amore. Per questo ho scritto: «Non toglieteci le chiese - e pensavo a quelle romaniche che ho vicino a casa -, né le sinagoghe, né le moschee». Evitiamo, però, il fondamentalismo.

Dove vede questo rischio?

Nella religione che ingloba la politica, e nella politica che usa la religione per propri fini. È un tentativo sbagliato di assolutizzare. La scienza, invece, ha qualche anticorpo in più, non ha questa violenza intrinseca: difficilmente scoppierà una guerra tra chi dà due interpretazioni di una teoria scientifica.

Però, come dicevamo, anche la scienza può essere presa come un idolo…
Gli scienziati sbagliano quando, davanti ad una parte di realtà che non corrisponde alla loro teoria, cercano di cancellare la realtà anziché modificare la teoria. Il punto è che vanno sempre a tentoni, non aspirano a raggiungere una compiutezza: questa sarebbe la morte della scienza.

Un uomo che conosce la falsità degli idoli, ma che - come lei - rifiuta di «inginocchiarsi a Dio», su cosa fonda la sua vita?
Per me l’unico fondamento sta nel riconoscere la fragilità mia e degli altri. Lo diceva Voltaire: siamo dei giunchi nel fango, e sarebbe stupido accusare qualcuno perché non è come pensavamo, o per i suoi sbagli. Siamo sulla stessa barca: se il vento la scuote, anziché litigare conviene dividerci i compiti per mandarla avanti. Perché io mi sento in ricerca continua. Per questo mi piace discutere: imparo sempre qualcosa, a patto che io faccia un lavoro su di me, che abbia la pazienza di ascoltare chi ho davanti.

Come avveniva al liceo, con quel professore di religione…
Con don Giussani facevamo delle litigate epiche. Lì per lì mi arrabbiavo, veniva fuori una contrapposizione. Oggi, coi capelli quasi bianchi, posso dire che ne ho nostalgia. Perché la cosa più bella è discutere con gente certa, appassionata. E, in questo, Giussani era un vero maestro.