La cappella dei Re Magi.

VARALLO Accade sotto i miei occhi

Lo splendore del Sacro Monte dopo il restauro. Lo sguardo dei Magi, la tranquilla dignità di Giuseppe. Un percorso tra le cappelle di Gaudenzio Ferrari, che fanno rivivere ora «un fatto potente e umile». E «ti ammazzano di dolcezza»
Davide Dall’Ombra

Visitando il Sacro Monte di Varallo si capisce perché persone come san Carlo o don Giussani non potevano che essere lombarde. Lo straordinario complesso, che riproduce la vita di Cristo con statue e affreschi a grandezza naturale in una quarantina di cappelle, è una possibilità unica per fare i conti con la persona di Cristo plasmata in alcuni capolavori del ’500 e ’600 italiano. È un accorciare le distanze che scavalca i secoli e fa riaccadere quei fatti nell’istante della tua visita al Monte.
Quello che ha celebrato il convegno del 22 e 23 ottobre è il restauro del gruppo di Betlemme, che comprende quattro cappelle realizzate da Gaudenzio Ferrari nei primi decenni del ’500.
Per il fedele di oggi, vedere da vicino l’Arrivo dei Magi, l’Adorazione del Bambino, l’Adorazione dei Pastori e la Presentazione al tempio, dopo un restauro che ne ha riportato alla luce tutta la bellezza naturale, significa immergersi in un fatto potente e umile allo stesso tempo. Entrando nel complesso, si costeggia la cappella dei Magi e quella che è riemersa sulle pareti è una festa di volti, uomini, cavalli, bandiere, bambini: un popolo che accompagna i tre Re Magi raffigurati in scultura e che era totalmente nascosto da una coltre biancastra. Quello che sorprende è che non si è di fronte ad un ricordo del passato, ma a qualcosa che sta accadendo in questo momento: il primo Re è appena sceso da cavallo e uno scudiero gli sta slacciando gli speroni, il terzo, più avanti degli altri, vede già la Madonna e il Bambino e si sta togliendo il cappello, tutto preso da uno sguardo dolce e commosso che non si riesce a descrivere. Il pellegrino fa la stessa strada dei Magi e scopre gli stessi volti. Nella cappella che segue, Maria e Giuseppe stanno inginocchiati di fronte al loro bambino con una tranquilla dignità che t’inchioda. Guardando quei due genitori ti viene il sospetto che accettare un figlio come qualcosa che non è tuo potrebbe essere una posizione umana, persino più naturale del possesso. La scoperta è che, con Gaudenzio, le cose le intuisci a suon di pace, a colpi di letizia; non che in tutto il Sacro Monte ci sia solo questo modo di raccontare, ma lui usa questo: ti ammazza di dolcezza.
Giunto nel cuore del complesso, nell’Adorazione dei pastori, il restauro ha restituito alla scena una dignità che sembrava perduta; si capisce molto bene ciò che prima si faticava a distinguere: che a Gaudenzio spettano Maria e Giuseppe, i due animali e solo uno dei tre pastori. Benché gli altri due, aggiunti nel Seicento da Giovanni d’Enrico, siano fatti alla maniera di Gaudenzio, solo il pastore in primo piano è fino in fondo credibile: una fusione perfetta tra grandezza e piccolezza umana di fronte al Divino; impacciato nella sua possente muscolatura, avvolta in abiti consunti e sbrindellati, è lì. Un “niente” davanti al “tutto”. E non è poco.
Un’altra sorpresa di questa cappella è che Maria non guarda il Bambino. È una “vergine distratta” che aveva scandalizzato il vescovo Taverna, ma che, in realtà, ci ricorda ancora una volta che siamo dentro ad un fatto umano che sta accadendo. La fonte sono i Vangeli apocrifi, così ricchi di dettagli: la Madonna si è girata a guardare verso i Re Magi, sorpresa dal frastuono che hanno fatto arrivando con il loro corteo. È preoccupata che non siano gli emissari di Erode che minacciano suo figlio e ha già le braccia sollevate, pronta a nasconderlo nella paglia su cui è poggiato.
Superate le scale, che riproducono esattamente quelle presenti a Betlemme, il ciclo si chiude con la Presentazione al Tempio e, ancora una volta, nuove scoperte: affreschi riemersi, incarnati svelati e un terzo atto per la Madonna, poco più che ragazzina. Qui la troviamo intenta a stringere a sé un Bimbo terrorizzato dall’enorme coltellaccio stretto al centro dal sacerdote. Con questa umanissima paura e in quell’abbraccio si chiude il cerchio, perché Maria riaccoglie in sé quel Bambino, quasi fondendolo con il suo seno, con la sua carne. Il diapason degli affetti, tra distacco e possesso, suona l’unica nota del grande Gaudenzio, fatta di carne e tenerezza.
Con questa straordinaria restituzione del complesso di Betlemme si capisce che in Cristo non c’è soluzione di continuità tra la nascita e la morte e che, a tenerle insieme, è la maternità. Già Giovanni Testori parlava della «lunga catena di madri» dipinte nella cappella della Crocifissione dallo stesso Gaudenzio; saranno una ventina, tutte intente a stringere a sé il proprio bambino, e, ora che tutta l’opera di Gaudenzio è tornata a splendere, a suonare la stessa nota, si coglie meglio come quel gesto così umano di fronte alla Croce, non sia altro che la dilatazione del gesto di Maria al Tempio, un riaccadere umanissimo di quell’abbraccio che, nei secoli, è arrivato fino a noi per farci stare di fronte alla nascita e alla morte.