Un amore scolpito nel segno

LA SAGRADA FAMÍLIA - GAUDÍ E IL PAPA
Davide Perillo

Un simbolo fatto di simboli. Che sale al cielo da oltre un secolo. Mentre Benedetto XVI va a consacrarla, entriamo nell’ultima cattedrale d’Europa. E nel cuore del suo autore.
Per guardare in faccia una bellezza vertiginosa. Che nasconde, ad ogni centimetro, il segreto di una vita «senza misura». E di una fede che nasce dalla pietra


Il martello è sospeso in aria. Lo sguardo, chino sul banco di lavoro. Il volto è di una bellezza potente, capace di imporsi anche al cono d’ombra e ai dieci metri di distanza. Ed è mentre fissi quel Gesù giovane e gagliardo, colto nell’atto più banale di una giornata qualunque nella bottega di Giuseppe, che ti sorprende un pensiero imprevisto. Staresti a guardarlo per ore. Per sempre, forse. Aspettando quel colpo che non arriverà mai e al tempo stesso godendo fino in fondo di quella presenza piena, carica di tensione. Fai qualche passo indietro. Alzi gli occhi sulla facciata, i ricami di pietra, le torri. Il cielo. E ti accorgi che in fondo l’anima della Sagrada Família è proprio questa: l’eterno. E l’attesa. Qualcosa che c’è già - con tutta l’imponenza del suo splendore -, ma non è ancora. Un fatto reale, da vedere e toccare, che ha dentro già tutto, ma non è ancora tutto. È come il cristianesimo. Anzi, è il cristianesimo.
L’ultima cattedrale d’Europa aspetta il Papa. Questione di giorni, e Benedetto XVI arriverà a consacrare l’altare maggiore di questo capolavoro unico e denso di mistero ideato da Antoni Gaudí e diventato il simbolo di Barcellona, che da 128 anni lo vede venir su una pietra alla volta e ancora non sa quando sarà finito. Il cantiere non si ferma. Le visite, neppure: 8-9mila persone al giorno. Il 7 novembre, davanti al Pontefice, saranno centomila e passa. Un avvenimento, come ogni viaggio papale. Ma con un impatto, se possibile, più imponente. Perché la Sagrada è più di una chiesa. È un segno. Un simbolo della fede in una Spagna che la sta rinnegando. Qualcosa di corale costruito da un popolo, nel cuore di un’Europa che ormai parla solo di nazioni e individui. Se preferite, l’esempio più imponente di cosa intenda Benedetto XVI quando richiama l’uomo a riscoprire il cuore e il suo desiderio di «cose grandi».
«È il contrario della misura a cui siamo abituati». Etsuro Sotoo lo dice a voce bassa, nello spagnolo piano e ricco che ha imparato in trent’anni di lavoro qui. È arrivato a Barcellona nel 1978. Dal Giappone, dove aveva scoperto la sua vocazione a lavorare la pietra, via Parigi, dove l’arte che aveva incontrato non lo aveva convinto «perché sembrava morta, e io volevo qualcosa di vivo». La Sagrada lo è. L’ha vista e ha deciso che avrebbe dovuto lavorare lì. Così è stato. Un concorso dopo l’altro, una statua dopo l’altra, è diventato uno degli scultori principi del Tempio catalano. Di sicuro, il più vicino allo spirito di Gaudí. Lo capisci al volo, quando inizia a spiegarti l’opera e invece di parlare di archi, campate o modernismo, parte proprio da lì: dalla misura. «La scienza misura. Noi misuriamo perché siamo creature. Vogliamo sapere dove siamo. Vogliamo sapere che cosa è questo mondo, pensando che sia nostro. Ma per misurare, prima devi guardare e capire di che si tratta. E noi non possiamo conoscere tutto quello che ci è stato dato. Quindi non sappiamo che metro usare per misurarlo, e ci inganniamo». Conclusione: «L’unica maniera adeguata di conoscere è la fede. Con quella possiamo scoprire senza misurare».

«Torna all’origine». Fede e conoscenza. In fondo è giusto prendere l’abbrivio da lì, da come si usa la ragione. È decisivo, di fronte a questo sconfinato simbolo fatto di simboli. Non c’è un centimetro di pietra che non richiami altro. Dalla tartaruga giù in fondo alla colonna che fa da grondaia, a ricordarci che nel cammino della vita si avanza poco a poco, alle spighe e all’uva in cima alle torri, segno supremo dell’Eucaristia, passando per le statue, le vetrate, le decorazioni... Tutto dice che la realtà stessa è segno. Rimanda oltre, se la sai leggere a cuore aperto. «Per spiegare certe cose con le parole, servono decine di pagine», osserva Sotoo: «A Gaudí basta un simbolo. Il simbolo è una concentrazione di verità. Un disegno che unisce ciò che la gente di solito non vede. Noi non possiamo fare come Dio, che disegna in maniera perfetta. Ma Gaudí vuole concentrare tutto perché chi guarda possa leggere facilmente».
Facciata della Natività, Portale della Carità. Ci sono decine di animali. Foglie. Frutti. L’apoteosi della natura. Perché è da lì che Gaudí prendeva tutte le sue idee. Dalla realtà. «La sua era immaginazione, non fantasia», spiega Juan Bassegoda i Nonell, per 32 anni titolare della Cattedra Gaudí: «Copiava la natura. Era originale, ma nel senso più vero della parola: tornava all’origine». Così si spiegano le facciate ondulate, le soluzioni coraggiose, le forme a prima vista stravaganti - per noi, abituati a rette e angoli squadrati - ma che invece richiamano soltanto ciò che esiste davvero, prima delle astrazioni geometriche e dei disegni.

Natura maestra. «Gaudí ha sofferto molto», ricorda Sotoo: «Due fratelli morti piccoli. Lui stesso a volte era malato. Andava poco a scuola. Lottava contro la solitudine. E lì ha scoperto l’osservazione della natura. Ne godeva. E imparava. Questo è il suo segreto». Trasmesso anche a lui. Basta ascoltare come ti spiega le decine di foglie che ha scolpito in basso, sotto i frutti che compaiono sulle torri campanarie: «Il lavoro della Chiesa è far crescere l’anima. Farla maturare. Come lo esprime Gaudí? Impara dalla natura. Come matura la frutta? Grazie alle foglie, che assorbono l’energia della luce. Le foglie per lui sono come le parole. Per noi giapponesi, tra l’altro, è chiarissimo: diciamo “parola” unendo i termini koto e ba, “dire” e “foglia”. Si cresce attraverso la Parola di Dio. Chi la ascolta di più, matura. Ma questo è solo il primo passo. Man mano che sali, e arrivi al cospetto di Dio, le parole diventano inutili. Spuntano i frutti».
Guardi, ripensi alle altre forme del genio catalano, e capisci un po’ meglio che cosa succede quando «l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà», come dice il Papa. Letteralmente: capacità di leggerla dentro. E di rispettarla, mettendoci tutto di te. Fino a restituirla all’uomo - al tuo compagno di strada - ricca di un accento nuovo: il tuo contributo. In Gaudí - e Sotoo - è evidente. Tutta la tensione del lavoro punta a mantenere unito ciò che lo è già in origine. A non dividere. Solo questo permette di creare. «Gaudí aveva un criterio, chiaro: struttura, funzione e simbolo devono andare insieme. Sempre».

In linea retta con il cuore. C’è una colonna davanti alla Facciata della Natività. Alta, slanciata. Quasi non ci avevi fatto caso, preso com’eri dalla bellezza delle statue. Poi Sotoo ti fa notare i rilievi. Il serpente con la mela in bocca, là in basso. E la rete di ferro lavorato che circonda la base. «L’ha voluta Gaudí. Sapeva che alla gente sarebbe venuto spontaneo toccare la colonna. Tempo qualche decennio e la pietra si sarebbe consumata». L’ha protetta. «Ma la rete vuol dire anche altro: l’uomo pensa di essere libero, mentre è in prigione. Sconta il peccato originale. È libero solo quando sale». E infatti, più su, la rete non c’è. Struttura, funzione e simbolo. Non c’è pezzo della Sagrada che non li tenga insieme. Già dalla testa del suo architetto. «Oggi cerchiamo solo la risposta giusta per un problema alla volta. Difficile. Se cerchi di risolverne uno, ne incontri altri. Si moltiplicano. Ti servono gli specialisti, e finisci per perdere tempo. Invece abbiamo bisogno più che mai del pensiero di Gaudí. Lui cercava una sintesi. Non l’analisi».
Insegnava anche altro, Gaudí. La pazienza, per esempio. L’apertura. Disegnava poco. Certo, faceva calcoli. Studiava, molto. Ma quasi sempre il risultato era una maquette, un modello tridimensionale, più che un progetto iperdettagliato. In qualche modo, una visione. Da proporre e condividere, affrontando insieme gli ostacoli. «Mostrava il modello all’operaio e diceva: è bello, no? Proviamo a farlo. Così comunicava in linea retta con il suo cuore qualcosa di importante, ma invisibile». Se quello aveva il cuore aperto, vedeva. «Gaudí non obbliga mai. Propone. Ti dice: so che per arrivare lì incontrerai dei problemi. Ma se sarai nell’atteggiamento giusto, troverai la risposta. Se hai fretta, non rispetti nulla e non trovi nulla. Questo è uno studio di come montare la Torre di Gesù a 170 metri di altezza. Se incontri problemi a 130, non puoi tornare indietro. Devi trovare una soluzione. Ma dipende da come ti poni. Il problema, se lo affronti così, non è più un problema. Ti farà cambiare strada, fare una curva, ma la meta resta lì. Intatta».

Il tempo di Dio. Non vale solo in architettura. Davanti a una delle facciate della Sagrada c’è un’altra costruzione. Pareti ondulate («sostengono meglio il peso»), pianta a tre cuori intrecciati («è la Trinità»). Non è un edificio di culto. Era la scuola per i figli degli operai. Nel cantiere erano più di quattrocento, all’epoca dell’architetto. «Lui è partito da un problema: come evitare gli incidenti sul lavoro? Facendo in modo che chi lavora sia sereno. E come ci arrivi? Con i soldi? Impossibile. Serve qualcosa di più. La speranza. E la speranza sta soprattutto nei figli, nel fatto che possano avere un futuro migliore del tuo». Ecco, la scuola è nata da lì. «E in 128 anni non ci sono mai stati incidenti mortali. Un miracolo».
Miracolo, forse. Di sicuro, qualcosa di straordinario. Come le altre cose che Sotoo ti accompagna a vedere. Le iperboloidi che chiudono le torri, facendo diffondere la luce dall’alto in linea retta. Le vetrate, spettacolo di ingegno. O le colonne della navata: 52, una per settimana, ad allungarsi e cambiare scanalatura man mano che salgono. Un bosco di pietra. Qualcosa di infinitamente altro dall’idea solita di spazio e di tempo. «Tante volte diciamo: non c’è tempo», osserva Sotoo: «Non è vero. Dio ti dà tutto il tempo e lo spazio che vuoi. Se Glieli chiedi. Siamo noi che li misuriamo. Diciamo che “il tempo passa”, invece siamo noi a “passare il tempo”. Ad attraversarlo. Per noi c’è passato, presente e futuro. Per Dio, no. Il futuro è ora, presente». Ecco, qui tutto è fuori misura. Non nel senso di enorme, ma di qualcosa che sfonda la misura. Va oltre. Fino a dare, in qualche modo, le vertigini. Posizione difficile da reggere, se non tieni presente lo scopo. Il Significato.

«Vado a trovare la Madonna». Non a caso, su questo si discute. Parecchio. E si battaglia. Da qualche anno, la fretta di chiudere questo cantiere senza fine - in fondo, di misurarlo una volta per tutte - sta generando scelte discutibili. Questioni di gusto, come i led luminosi in cima alle colonne della navata o le vetrate più spesse e meno ricche di sfumature. Ma anche di sostanza, perché nulla qui si può slegare dal resto. Prendete la Torre della Vergine, una delle diciotto che svetteranno a Tempio ultimato. Dovrebbe essere seconda in altezza solo a quella di Gesù. Problemi in corso d’opera hanno fatto pensare di accorciarla. Renderla più bassa delle quattro degli Evangelisti. Il che non è esattamente come fare qualche piano in meno a un grattacielo, se si fissa lo scopo.
«Fare in fretta finisce per farti disprezzare molte cose», dice Sotoo, amaro. Lui stesso, al momento, è senza contratto, come sospeso in un limbo. Non fa polemiche né paragoni. Accenna soltanto a quello che gli sta davvero a cuore, e che ormai capisci benissimo, dopo una mattinata a seguire il suo sguardo: «Molti dicono che Gaudí è morto, che bisogna superarlo. Falso. Sarebbe morto se nessuno si ricordasse di lui o di quello che ha fatto, ma non è così. Il pericolo è che sia assassinato».
C’è un modo semplice per farlo: smettere di guardare. Non a lui, ma «a quello che guardava lui», come dice Sotoo raccontandoti la scoperta che gli ha cambiato la vita per sempre. Non è solo una questione di metodo. È molto di più. È stato un po’ alla volta, entrare in lui. Diventare tutt’uno con un uomo che, come ti racconta José Manuel Almuzara, presidente dell’associazione pro-beatificazione di Gaudí, «prima di disegnare la Facciata della Passione ha fatto quaranta giorni di digiuno, per immedesimarsi in Cristo. E ogni giorno faceva dieci chilometri a piedi dopo il lavoro, per andare a pregare nella chiesa di San Filippo Neri». Ma era anche uno «capace di alzarsi da tavola, durante una conversazione, e dire: “Vado a trovare la Madonna, ho tante cose belle da raccontarle”. Un bambino». Morì in un ospedale per poveri, dopo essere stato investito da un tram e tre giorni di agonia, dicendo: «Dio mio».
Per questo «guardare dove guardava lui» è molto di più che imitare uno stile. È guardare a Cristo. Contemporaneo, qui e ora. «Gaudí fuori dalla fede è incomprensibile», scolpisce Almuzara. Che nel 1991 è stato padrino di Battesimo proprio di Sotoo. L’immedesimazione è arrivata fin lì. «Per me è stato scoprire un altro mondo», dice lo scultore. Ma scoprire e donare, in un artista, sono la stessa cosa. Il contributo più potente di Sotoo alla Sagrada è la Facciata della Natività. Due gruppi di statue: sei angeli che suonano e nove bimbi che cantano. Il gioco di sguardi ti incanta. Ma tutti portano al Bambino. «Li ho finiti a Natale del 2000. La gente dice che la Sagrada non sarà mai terminata. Io ho voluto fare un regalo a Gaudí prima di fine millennio».
In qualche modo, è un «grazie». Perché guardando Gaudí, Sotoo ha scoperto un modo di usare la ragione, e noi con lui. «L’uomo lotta contro la gravità. Da sempre. Perché la gravità ti spinge verso il basso, mentre l’architettura sale. Ma Gaudí aveva fede. Pensava: la gravità viene da Dio. Come faccio a salire rispettando la volontà di Dio? Se studio questa pietra, ne assimilo il carattere, fra cinque anni, o cinquanta, diventerà qualcosa che sale. È successo. Ha trovato soluzioni per cui è la gravità a tenere in piedi l’edificio». Non è solo tecnica.
«Noi abbiamo equivocato per secoli su che cos’è l’intelligenza. Pensiamo sia convertire a forza la materia. O la gravità. O la malattia. O i problemi famíliari. Moltiplicando leggi e obblighi per trovare soluzioni. Ma da Gaudí impariamo la nostra vera intelligenza: obbedire alla realtà. Se obbediamo, scopriamo una forza che ci permette non solo di vincere il nemico, ma di convertirlo nel nostro primo amico. È il massimo. Nessun dio dell’antichità aveva questa forza. Poseidone dominava il mare, Kronos il tempo, Urano il cielo... Ma nessun dio dominava il nemico fino a convertirlo in amico. Gaudí ci dice che se obbediamo, possiamo farlo».

Libertà verticale. Obbedienza. E conversione. Sei partito dalla pietra e ti ritrovi al cuore della fede. Anzi, sulla soglia. C’è un ultimo passo. E fa impressione rendersi conto che Gaudí abbia pensato anche a questo dall’inizio. La Sagrada è un Tempio Espiatorio. Serve a vincere il male. «L’obiettivo non è fare qualcosa che inorgoglisca la città, ma uno strumento per costruire l’uomo. Uno strumento brilla quando viene usato. Dando colpi con il martello, fai soffrire insieme la pietra e l’attrezzo, perché venga fuori un’immagine di uomo bella. Così la chiesa. Non è l’obiettivo: è uno strumento. In qualche modo, deve ricevere anche lei questa sofferenza». Parla del Tempio, Sotoo. Ma si capisce che racconta di sé. Della situazione che vive, lo stallo, le incomprensioni. Soffre, e si vede. «Ma se attraverso queste sofferenze apprendiamo qualcosa per l’eterno, va bene».
Lo abbracceresti. Lui, e Gaudí. Come abbracceresti qualsiasi uomo così libero dall’esito della sua opera, per quanto sia imponente. Arrivato a fine percorso, ti accorgi che tutto poggia lì. Sulla scoperta di una libertà impensabile. Sotoo la chiama «verticale». Ciò che ti permette di salire, vincendo - anzi, usando - la gravità. Le ha dedicato anche un libro, in uscita per Encuentro. Leggeremo. Intanto, basta guardare. E puntare gli occhi su un’altra statua, che Gaudí ha voluto nel Portale del Rosario e Sotoo ha restaurato dopo la Guerra Civile. È Santiago, l’anarchico. Guarda la Vergine, in cima alla porta, mentre un serpente gli porge una bomba. «È una delle grandi tentazioni: il potere». Quel giovane ti prende l’anima. È il ritratto di un anarchico vero, che nel 1893 al Teatro Liceu fece venti morti, quasi tutti della famiglia di Pepita Moreu, la donna di cui Gaudí era innamorato. Ma è proprio la statua a colpirti. Gli occhi spalancati. La figura tesa. La mano appoggiata sull’arma, ma ancora indecisa se dare ascolto o meno al serpente che dice: «Fallo, è giusto, per te e i tuoi compagni». Gaudí ha voluto sorprenderlo un istante prima. L’attimo della libertà. Suggerisce, non impone. Come sempre. Non sai se Santiago tirerà quella bomba, ma conosci benissimo la sfida che sta vivendo dentro. Quella che tocca te, tutti gli istanti. E capisci meglio perché «il lavoro più importante del Tempio è costruire l’umano».
Esci, e hai davvero un senso di vertigine, come dice un’amica: «È impressionante la potenza dell’uomo quando serve Dio». Impressionante, vero. «Ma il nostro lavoro è scoprirla, giorno per giorno», aggiunge Sotoo: «La vera potenza della Sagrada non l’abbiamo ancora scoperta». Magari la capiremo meglio quando arriverà il Papa. Sotoo tace. Ti guarda, serio. «Sì, è così. L’invisibile diventerà visibile». Qui e ora.