La copertina del libro di Singer,<br><em>La famiglia Moskat</em>.

SINGER La vita vera degli ebrei e quei tramonti sulla Vistola

Una famiglia di Varsavia, dall'inizio del '900 fino alla Seconda Guerra Mondiale. In un intreccio di vicende e personaggi. Un grande ritratto dell'ebraismo del secolo passato
Paola Bergamini

È in libreria una nuova edizione con introduzione di Giorgio Montefoschi de La famiglia Moskat il romanzo dello scrittore ebreo Isaac B. Singer, premio Nobel per la letteratura nel 1978 di cui Longanesi sta pubblicando l’opera omnia in vista del ventennio della morte. L’avevo letto tanti anni fa, quando “fagocitavo” un po’ di tutto, su indicazione di un caro amico: «Così capisci e “vedi” cosa ha voluto dire essere ebreo». Quando ho avuto tra le mani questa nuova edizione mi ha colpito la frase in quarta di copertina di Claudio Magris: «Pochi scrittori riescono a esprimere come Singer l’assoluto di ogni momento significativo della vita, l’amore, la sofferenza, la seduzione, l’orrore che si staglia contro lo sfondo dell’eterno e del nulla». L’ho riletto, non l’ho fagocitato. Ed è stata una nuova sorpresa. Accade tutte le volte che si legge e si rilegge una grande opera.
In settecento pagine Singer, che scriveva in yiddish - la lingua parlata dagli ebrei ashkenaziti della diaspora - narra la storia della famiglia Moskat a Varsavia dall’inizio del secolo scorso fino alla Seconda guerra mondiale.
Il libro inizia con il terzo matrimonio dell’ottantenne Meshulam Moskat, il capostipite. Negli anni e dal niente si è costruito una fortuna, buona parte della comunità ebraica della capitale polacca abita nelle sue case, lavora per lui. E da lui dipendono i figli, le figlie, i generi, le nuore e i nipoti. Tutti lo trattano con deferenza e rispetto. Ma c’è chi non lo sopporta o lo odia come il genero Abram Shapiro, uomo generoso e amante della bella vita. In questo contesto familiare piomba il giovane Asa Hesehel, scappato dalla campagna e dagli insegnamenti del nonno, rabbino del villaggio, in cerca della Verità. Non gli era bastato lo studio del Pentateuco e del Talmud. Aveva letto Goethe, Schiller, Spinoza ed ora a Varsavia vuole approfondire i suoi studi. A Varsavia conosce intellettuali che cominciano a credere al sionismo, a cui non bastano le antiche tradizioni. Che pensano che un ebreo, ad esempio, possa studiare in università. Hesehel si innamora, ricambiato, di Hadassah, nipote di Meshulam, a cui però è già stato destinato un altro come marito. La sua storia si intreccia a quella degli altri componenti della famiglia e di chi attorno vi gravita. Si tratti di Noemi, la governante/padrona acida di casa Moskat, oppure di Koppel, il confidente e consigliere del vecchio Meshulam, odiato per questo dai figli che alla fine riesce a scappare in America con buona parte dell’eredità dopo la morte del padrone. Non c’è personaggio, infatti, che non sia importante per capire, per “vedere”. Aveva ragione il mio amico.
Il romanzo si snoda tra nascite, lutti, amori, fughe, tradimenti e divorzi, temporalmente fino ai bombardamenti su Varsavia da parte dei nazisti e alle deportazioni. Sin dalle prime pagine sei dentro la vita ebraica. Sei parte del popolo discendente da Davide. Dove i riti, le festività, cosa e quando mangiare e bere, come vestirsi, lo studio delle Sacre Scritture e la preghiera in sinagoga sono parte integrante della vita. Sono la vita. Scandiscono la giornata. Sono le regole per vivere secondo Dio. Un Dio a volte incombente, a volte misericordioso. Ma che dall’alto detta il destino di ognuno. E anche nel peccato, nel tradimento, a Lui sempre tutti i personaggi rivolgono il pensiero. Ci sono termini che non sono stati nemmeno tradotti e di cui a piè di pagina trovi una definizione e altri che impari a conoscere man mano che ti inoltri nella storia. Ti ritrovi ad amare, a piangere, a ridere, a imprecare con ognuno dei personaggi. Sei lì sul ponte sulla Vistola dentro un droshky che corre veloce in un crepuscolo violaceo, oppure nei cortili di Varsavia che annusi lo stufato, ovviamente kasher, o abbandonato e disperato dentro una cella e ti pare come ad Heshel «che Dio stesso sospirasse l’alba». Nei dialoghi serrati, nelle descrizioni dei luoghi, delle azioni, c’è la vita. Non nei concetti astratti che Singer non amava, come è stato scritto. Ed è tutta un crescendo.
Il finale stordisce. Tutto è perso. Anzi finito per il popolo di Israele. Il dramma sembra compiuto non solo per la famiglia Moskat. Ma il dramma è solo all’inizio.


Isaac B. Singer
La famiglia Moskat
Longanesi

p. 664, € 24