Giotto, "Incontro tra Gioacchino e Anna", Cappella <br>degli Scrovegni (Padova).

Le mie 18 notti da sola con Giotto

I ricami, le lacrime, i dettagli più "invisibili". Una ricostruzione virtuale mostra la Cappella degli Scrovegni in ogni particolare. Ecco che cos'ha scoperto chi ha fotografato gli affreschi, millimetro per millimetro
Alessandra Stoppa

A dodici metri di altezza, i volti sono dettagliati fino alle rughe. Sulle guance delle madri nella Strage degli innocenti scendono lacrime colorate. E l’armatura del soldato che sta sotto la croce, accanto a Longino, è tutta intagliata da ricami dorati. Invisibili da terra. Da giù, la prima cosa che vedi è il cielo. Chiunque mette piede nella Cappella degli Scrovegni alza subito la testa: calamitato dal blu della volta a botte con le sue stelle a otto punte. Ma tutto quello che è pennellato in ogni centimetro della stanza affrescata si perde nella distanza.
I riquadri con la vita di Gesù, lo zoccolo delle Virtù e dei Vizi, il Giudizio Universale, il Paradiso e l’Inferno, ti incantano nell’insieme: meravigliosi come Giotto li ha fissati, sapendo illuminare ogni volto. «In tutto il ciclo si incrociano sguardi carichi di sentimento». Ma può dirlo meglio chi è più vicino, chi può osservarli dalla prospettiva di Giotto. Può dirlo Alessandra Barberi, ventisei anni, che nella Cappella degli Scrovegni ci è arrivata per uno stage e ci ha passato diciotto notti consecutive. Erano in quattro. La porta si chiudeva dietro ai visitatori e iniziava il lavoro. Uno alla volta stavano nella Cappella, gli altri tre facevano da "regia" dentro la sacrestia. «Per ore e ore, sono rimasta io da sola nel mezzo di tutta quella bellezza». Cantando per stare sveglia e non perdersi niente, nessun dettaglio.
Diciotto notti, dalle otto di sera alle sette di mattina. Per fotografare, di tutta la Cappella, ogni millimetro. E non per modo di dire. Quattordicimila scatti per quattordicimila pezzettini di pittura, in cui sono state suddivise le pareti e il soffitto. Un mosaico di foto microscopiche. Settecento metri di ciclo d’affreschi ricostruiti mettendo un tassello accanto all’altro. È questo che ha permesso di creare al computer una visita della Cappella a 360 gradi (esplora qui la Cappella degli Scrovegni), dove ogni millimetro dell’opera può essere zoommato in scala reale senza perdere definizione.
«Li abbiamo fotografati con una testa panoramica su un grande ponteggio», racconta Alessandra, che lavora ad Haltadefinizione, la società che porta avanti questo progetto sui più grandi capolavori della storia dell’arte. Quello di Haltadefinizione non è soltanto un modo per valorizzare il nostro patrimonio, facilitare i restauri con la documentazione fotografica, o aiutare la critica d’arte. «È anche il modo per dare a tutti, gratuitamente, la possibilità di gustare la bellezza da un punto di osservazione privilegiato». Come essere sul ponteggio, appunto.
È la possibilità di vedere con che grandezza alcuni uomini hanno lavorato sulle cose più piccole. Il campanile di diciannove millimetri che c’è sullo sfondo dell’Ultima cena di Leonardo. Il velo di Maria nella Natività degli Scrovegni. Le oltre cinquecento specie di fiori nel prato della Primavera di Botticelli. Le tecnologie sono d’avanguardia, ogni flash è misurato per non danneggiare l’opera. E poi c’è tutta la cura umana: «Per la Cappella degli Scrovegni sono serviti due anni di lavoro, abbiamo dovuto passare uno a uno gli scatti, controllando al dettaglio che non ci fosse nessun buco, che tutto fosse a fuoco, che non mancasse la più piccola delle crepe», spiega Alessandra.
Lei che è rimasta folgorata da Giotto a tredici anni, grazie a questo lavoro è stata faccia a faccia con lui. «Ho vissuto l’opera a una distanza eccezionale, ho scoperto cose che non avrei mai visto, nonostante abbia studiato queste opere per tanto tempo. Ti accorgi che le greche dei dipinti, le decorazioni più alte, quelle negli angoli delle pareti, non sono tecnicismi. Perché chiunque, osservandole, ne rimane affascinato e allora a me sorge una domanda: c’è in gioco solo la capacità dell’artista? No, c’è qualcosa che viene trasmesso e soprattutto uno sguardo che lo riceve».
Coinvolgersi da vicino, nel particolare, fa vedere meglio l’insieme. Anche se l’abitudine penetra lo sguardo in fretta e lo ostacola: «Io devo continuamente riappropriarmi del mio sguardo, che deve imparare a interrogarsi sulla realtà», dice Alessandra: «Rendermi conto che la storia di Gesù raccontata negli affreschi di Giotto è una storia per me, è possibile solo se ogni volta mi commuovo nel vedere quei fatti accadere, quegli sguardi, quei volti». E questo accade anche a chi non sa nulla del Vangelo, come a tanta gente che lei ha visto commuoversi mentre gli spiegava l’opera.
Aver frequentato Giotto così tanto, aver fotografato la bellezza al millimetro ha rimesso a fuoco lei. «Ci vuole un occhio buono per conoscere la realtà. E sto imparando che se ti senti amato, guardato da uno sguardo buono, allora anche tu hai un occhio buono sulle cose. Il lavoro fatto dentro la Cappella, osservare il lavoro di un altro così da vicino, mi ha aiutata a capire molti aspetti della mia vita. Per questo, tra me e Giotto c'è un’amicizia».