Alcune locandine.

La crisi al cinema, un secolo in prima fila

Da "Furore" a "Wall Street", spesso il mondo dell'economia ha fatto da sfondo alle pellicole di Hollywood, sottolineando il vero dramma: non la perdita del lavoro, ma l'incapacità di capire per cosa vale la pena vivere
Laura Cotta Ramosino

Uomini in giacca e cravatta che escono dai grattacieli di Manhattan con un cartone che contiene anni di vita lavorativa, speranze e miraggi, famiglie sfrattate perché non possono pagare più le rate di un mutuo fatto forse troppo a cuor leggero, un intero Paese che si risveglia dall’ubriacatura dell’illusione di una ricchezza facile e indolore, uomini potenti e privi di scrupoli che gettano nella miseria milioni di persone.
La crisi che ha colpito negli ultimi due anni l’economia mondiale non poteva lasciare indifferente il cinema, che non può fare a meno di fotografare la realtà o che, più cinicamente, vi coglie gli spunti per grandi drammi.
Eppure spesso sono le commedie a raccontare, forse addirittura meglio che film all’apparenza più seri, se non i dettagli economico-sociali, l’impatto umano ed esistenziale delle grandi crisi.
Basti pensare alle grandi screwball comedies degli Anni Trenta, che in più di un caso fanno riferimento alla Depressione e affrontano con l’arma del sorriso questioni che sorgono spontanee di fronte al fallimento di un sistema.
Non che siano mancati nel passato grandi film che hanno raccontato senza sconti il dramma della crisi economica, come Furore di John Huston (da un romanzo di Steinbeck), e l’effetto che questa ha su una famiglia costretta ad emigrare verso la California, ma non c’è dubbio che anche Frank Capra, in È arrivata la felicità e L’eterna illusione, ma soprattutto La vita è meravigliosa sia stato capace di prendere spunto da intrallazzi finanziari, vicende di banche e investimenti per raccontare il desiderio umano di felicità e il valore della vita di ogni singolo uomo.
Anche in questi ultimi due anni le pellicole “sulla crisi” non sono mancate e quello che forse ha impressionato di più gli autori di cinema è che qui a fare i conti con la miseria e la fine del Sogno Americano non sono i “poveri” della Grande Depressione, ma milioni di persone della classe media che avevano sposato senza tanto pensarci la stessa mentalità di quelli che li hanno rovinati e sono stati costretti a ripensare da zero la loro vita non solo in termini di denaro. È questo il punto di vista di The company men, un dramma uscito recentemente in America, che segue la vita di tre dipendenti di una grande azienda licenziati all’improvviso e delle conseguenze di questo avvenimento sulla loro vita e sul rapporto con la loro famiglia.
Non a caso, poi, Oliver Stone ha scelto quest’anno per riportare sulla scena Gordon Gekko, indimenticato “cattivo” del suo Wall Street, che nel 2010 dei fallimenti delle grandi finanziarie e delle speculazioni mondiali può apparire quasi un dilettante del crimine finanziario. La soluzione, forse un po’ falsamente consolatoria, viene qui dagli affetti, desiderati e riconquistati (Gekko ruba ancora, ma alla fine quello che gli preme di più è ritrovare l’affetto perduto di sua figlia) e in qualche modo questa prospettiva “esistenziale” è quella sottesa anche a diversi altri film sull’argomento.
Un lato insolitamente umano che non manca anche al documentario del solito Michael Moore, Capitalism: a love story, in cui il regista americano, oltre che sparare a tutto campo su quello che è diventato il capitalismo americano negli ultimi trent’anni, si esprime con sorprendente calore sulla propria fede e si rivolge anche alla Chiesa per ottenere una condanna di un sistema che ritiene profondamente disumano… anche se poi forza il magistero cattolico su una linea di condanna senza distinzioni fin eccessiva.
Tutt’altra prospettiva, in ogni senso, quella adottata da Jason Reitman in Tra le nuvole. Con il suo solito stile spiazzante il regista (che pure ha intervistato centinaia di persone licenziate in seguito alla crisi) si mette nei panni di uno che per lavoro fa il “tagliatore di teste” e viaggia tutto l’anno in giro per gli Stati Uniti a dire alla gente che il lavoro non c’è più. Questo stile di vita, fatto di alberghi di lusso tutti uguali, viaggi in aereo in business class (e punti fedeltà diventati l’unica misura della felicità) che ai suoi occhi è una forma di paradiso finisce per mostrare la corda quando l’imprevisto di un innamoramento lo costringe a misurarsi con quello che il suo cuore desidera veramente.
La vera tragedia, insomma, più che la perdita di un lavoro (che comunque Reitman si guarda bene dal sottovalutare) è non sapere, o smettere di chiedersi per cosa valga la pena vivere ed è questo che il buon cinema, che parli di crisi economica o altro, dovrebbe avere l’ambizione di raccontare.