Eugenio Montale.

CMC MILANO Non le parole, ma la realtà porta più in là

Prima i versi recitati da Carabelli e Branciaroli. Poi il paragone con la propria vita di D'Avenia e Calabresi. Cronaca di un ponte dell'Immacolata in compagnia di Montale
Paola Bergamini

Alle 18 il Teatro Dal Verme, a due passi da piazza Duomo a Milano, è già pieno: studenti, universitari, insegnanti, tante persone, giovani e meno giovani che non hanno voluto perdere l’ultimo incontro del ciclo: “Più in là. Pascoli, Leopardi, Montale”, organizzato dal Centro Culturale di Milano. Chi l’avrebbe detto? Lunedì 6 dicembre per i milanesi è ponte dell’Immacolata. Scuole chiuse e, per chi è rimasto a casa, l’occasione per lo shopping natalizio. E invece... Una scommessa vinta.
Alle 18.15, puntualissimo, Uberto Motta, professore di Letteratura italiana presso l’Università Cattolica, introduce l’ultimo autore in programma: Eugenio Montale, la sua poesia. Poi le luci si abbassano e sul palco gli attori Andrea Carabelli e Franco Branciaroli si alternano nella lettura di brani di prosa e poesia del grande scrittore, premio Nobel per letteratura. Nella voce di Branciaroli i versi de I limoni, Maestrale, Meriggiare pallido e assorto si tramutano in immagini, sentimenti. L’«aria di vetro» ti sembra di toccarla e le parole de L’anguilla sguizzano nella mente verso quell’ancora “più in là”. A volte si ha quasi l’impressione che l’attore corra nella recitazione, ti viene da dire: «Fermati!». E invece, appunto, tutto è un po’ più in là. Non c’è enfasi o un’inutile drammatizzazione, persino le regole metriche a volte vengono volutamente dimenticate. Rimane solo la realtà, che evoca altro. Così nella prosa asciutta dei brani tratti da Al congresso, Elogio del nostro tempo, Intervista immaginaria, solo per citarne qualcuno, la domanda di senso prorompe. In sala il silenzio carico di tensione è rotto solo alla fine dallo scroscio di applausi.
Si riaccendono le luci e Motta invita sul palco due ospiti d’eccezione: Mario Calabresi, direttore de La Stampa, e Alessandro D’Avenia, giovane professore di liceo e autore del famoso romanzo Bianca come il latte rossa come il sangue. Certamente non vogliono “spiegare” Montale, ma cosa suscitano adesso, quelle parole, quei versi sempre così attuali, sempre così incalzanti per la vita di ognuno. Come è sempre la poesia. Punto di riferimento per entrambi è la propria esperienza personale, il proprio lavoro. Insomma la vita. Per questo è interessante ascoltarli. Riportiamo solo qualche spunto. Sul sito del Centro Culturale (www.cmc.milano.it) sarà possibile, a breve, rivedere l’incontro.
Calabresi parla della perdita del tempo della memoria: «Viviamo in un lungo presente. Il tempo della cronaca. Siamo portati a fare le cose urgenti non quelle importanti. Bombardati ogni minuto dalle notizie, non abbiamo più il tempo dell’elaborazione. Di guardare alla realtà». In questa frenesia dell’istante viene meno la responsabilità personale, tutto viene demandato alle istituzioni, ad altro, al massimo ci si rifugia nel ricordo di un’”età dell’oro” dove tutto andava bene, un tempo che però ormai non c’è più. Questo vale maggiormente per i giovani. «Che devono, invece, ancora credere nei loro desideri, nei loro sogni e nella volontà di realizzarli. È importante porsi le domande sulla propria vita senza cercare risposte immediate».
D’Avenia parte dai ragazzi, dai suoi ragazzi che vede tutti i giorni in classe. E introduce una parola nuova: orfanità. «I giovani non hanno padri che con braccio sicuro li lancino nella vita. La vera assenza è questa: il padre». Tanti gli esempi che fa, suscitando anche le risate del pubblico. Per lui Montale dà del “tu” alla realtà. Ti butta dentro. Questo spacca l’indifferenza del Grande Fratello. «Oggi tutto è uguale». E invece è necessario far vedere che c’è un mondo vero, fatto di ideali. Più interessante, per cui vale la pena soffrire, amare vivere. Un mondo reale. Perché, a differenza di quanto sosteneva Cartesio, «il sole viene prima del “Cogito ergo sum”». È lì, sotto gli occhi. «Accidenti, in poche parole ha spiegato e frantumato il pensiero cartesiano. Da tenere presente quando spiegherò Cartesio!», mi ha detto poi un’amica insegnante.
Dopo un’ora e mezzo tra gli spettatori non c’è segno di insofferenza, come ha commentato Motta: «Penso che potremmo rimanere ancora qui, tanto la discussione si è fatta interessante... Ma è tempo di chiudere».
Alla fine, intorno ai relatori si forma un folto gruppo di persone che vogliono sapere, chiedere. Calabresi deve andare via velocemente... Ha un giornale da dirigere. D’Avenia, invece, può fermarsi. E ascolta, autografa qualche libro, parla. L’incontro continua.