Residui di Nickel n. 31, Ontario, Canada 1996.

BURTYNSKY Nell'obiettivo la sproporzione dell'uomo

Al Centro Culturale di Milano sarà esposta fino al 27 marzo la mostra del fotografo ucraino-canadese. Nei suoi scatti il soggetto preferito è la natura trasformata dall'uomo. Tra orrori e bellezze inaspettate
Giuseppe Frangi

Tra le fotografie più famose di Edward Burtynsky ce n'è una serie che riguarda un luogo a molti famigliare. Mi riferisco al ciclo realizzato nel 1993 alle cave di marmo di Carrara, sulle Alpi Apuane. Un luogo mitico, di drammatica suggestività; montagne aspre, spigolose, inospitali che guardano con aria quasi di sfida il mare, a poche decine di chilometri...
Le immagini di Burtynsky traspirano di epicità, fissando quelle forme di dimensioni colossali, striate di ferite per i colpi inferti dagli instancabili cercatori di marmo. Sono immagini intessute di lacerazioni. Eppure sfondano emotivamente per la loro dimensione di forza e di imponenza.
Edward Burtynsky è nato nel 1955 in Canada, da genitori immigrati dal'Ucraina. Il padre, che lo ha spinto alla passione per la fotografia, era operaio alla catena di montaggio della locale fabbrica della General Motors. Burtytnsky ricorda sempre l'impressione avuta dai grandi grattacieli svettanti su Toronto oltre i 60 piani, che hanno segnato profondamente il suo immaginario visivo. Il padre e i grattacieli sono due richiami biografici che aiutano a entrare nel mondo di Burtynsky. Da una parte ci sono i luoghi del lavoro, visto come un colossale meccanismo organizzativo in grado di rispondere a domande di mercato globali, dall'altra c'è il fascino per gigantesche forme architettoniche, artificiali o naturali che siano. Tutta la storia di Burtynsky come fotografo si muove attorno a questi due poli d'attrazione, che hanno come tratto comune la sproporzione dell'uomo rispetto alla grandezza di ciò che lo circonda o del compito a cui è chiamato.
Burtynsky su una stessa larghezza d’orizzonte, propone un rapporto di forze rovesciato. Un’identica immensità viene, infatti, tenuta sempre sotto controllo dagli uomini. È l’uomo che agisce, scava, perfora, smonta, lavora senza tregua mentre la natura sembra assistere come una vittima sacrificale. C’è una potenza in atto nelle sue immagini, ma è la potenza del piccolo uomo che, come una formica instancabile, sembra plasmare il mondo secondo una logica vorace. Burtynsky spiega che dietro questo suo approccio c’è sempre una precisa intenzione etica. La terra messa sotto assedio dall’uomo è esausta, non riesce a reggere la richiesta di risorse che con sempre maggiore invasività l’uomo pretende. È un approccio corretto, intessuto da una sensibilità rispetto al futuro delle generazioni che verranno: troveranno ancora una terra capace di nutrirle e di garantire loro una dignitosa sussistenza?
Ma se questa è la giusta intenzione che lo mobilita nel suo mestiere di fotografo, il cammino creativo porta poi Burtynsky molto lontano. Definire la sua fotografia una fotografia di denuncia mi sembra, infatti, assolutamente limitativo. La forza che queste sprigionano ha altre caratteristiche, che non escludono la denuncia, ma che certamente la inglobano dentro uno sguardo che va oltre. Prendiamo l’immagine straordinaria delle cave portoghesi di Pardais. Anche qui l’uomo rapisce marmo alla terra, ma anziché farlo alla luce del sole, lo fa scavando un’immensa voragine. È un buco dalla struttura perfetta, con geometrie degne di una cattedrale che invece di svettare verso il cielo è stata scavata nel profondo. È uno spettacolo impressionante: pensare che sia il frutto del lavoro di minuscoli uomini riempie sinceramente di stupore. La terra è stata violata, ma l’esito è un nuovo assetto spettacolare.
Ci sono altre sequenze che raccontano drammatici fenomeni di distruzione tout court, come quella dedicata ai fiumi rossi per le fuoriuscite di nickel nell’Ontario (1996) o come le immagini prese pochi mesi fa sorvolando il Golfo del Messico, inondato dal petrolio fuoriuscito dalla piattaforma Deepwater Horizon. Disastri drammatici, esiti di una voracità distruttiva. Eppure anche in questi casi l’obiettivo di Burtynsky ci prende in contropiede, e l’orrore non ci risparmia una fascinosa bellezza. Anche nella serie Oil (2003) il deserto della California punteggiato di centinaia di piccoli pozzi dalle leve ormai arruginite sembra popolato da una sterminata distesa di cactus artificiali…
L’uomo che attacca e assedia il pianeta, è sempre l’uomo che attraverso il lavoro mette in azione una potenza trasformatrice. Certo, a volte questa potenza sembra smarrire ogni intelligenza e ridursi a demenziale violenza verso l’ambiente che Dio ci ha messo a disposizione. Ma pensare di proteggere la terra castigando l’uomo è logica da anime belle. Le fotografie di Burtynsky ci dicono un’altra cosa: solo iniziando ad avere un pensiero (e un’immagine) buono sull’uomo e sulla sua azione, si può pensare di guardare alla terra e al suo patrimonio come a un tesoro. Che poi rispettare i tesori non significhi seppellirli, ma portarli a giusta rendita, è insito nelle logiche più elementari e più sane della vita. E Burtynsky attraverso le sue immagini proprio questo ci ricorda.

Dalla presentazione al catalogo della mostra fotografica di Edward Burtynsky, “L’uomo e la terra. Luci e ombre”. Esposta fino al 27 marzo presso la Sala Verri del Centro Culturale di Milano, via Zebedia 2.