La <em>Marilyn</em> di Andy Warhol.

WARHOL Ecco perché Marilyn ha l'oro nei capelli

Cresciuto all'ombra di una chiesa bizantina, dedicava il tempo ai senza tetto, e teneva sul comodino un crocefisso. Una "biografia segreta" svela il volto nascosto del genio della pop art. Che «restituiva l'eterno anche alla realtà più banale»
Giuseppe Frangi

Chi era quell’artista figlio di immigrati, assiduo frequentatore della chiesa di rito greco cattolico di New York, che spesso si faceva trovare all'appuntamento della mensa degli homeless di Heavenly Rest, per servire a tavola da semplice volontario? Difficile associare questo identikit a quello di Andy Warhol, il più popolare, ricco, geniale e sfacciato artista della seconda metà del secolo scorso. Eppure tutti quei dati rispondono a verità. Fanno parte, anzi, di una biografia segreta, che lo stesso Warhol ha tenuto con significativo pudore in ombra, lontana da quei riflettori che stavano perennemente accesi a curiosare su ogni più segreta piega della sua vita. Una biografia segreta su cui ha voluto accendere i riflettori un critico francese, Alain Cueff, che nel volume Warhol à son image (Flammarion, 2009) ha raccolto alcune interviste del grande artista pop, ed è stato protagonista di una conferenza sul tema, settimana scorsa a Roma.
Lo scandaloso Andy in realtà si chiamava Andrew Warhola ed era il più piccolo dei tre figli di due slovacchi arrivati in America per sfuggire alla povertà del loro paese d’origine, Mikova, sui monti Carpazi, quasi al confine con la Polonia. Il padre Andrej era muratore e aveva raggiunto a Pittsburgh un gruppo di compaesani che avevano aperto la strada dell’emigrazione. Vivevano in un ghetto, Ruska Dolina, costruito attorno alla chiesa bizantina cattolica di San Giovanni Crisostomo. Qui Andrew venne battezzato. E qui sin da piccolo registrò, durante le lunghe cerimonie, i mille colori degli affreschi dipinti sull’iconostasi, la parete che, secondo la tradizione orientale, divideva il presbiterio dalla zona dove stavano i fedeli. La casa era piccolissima e si può vederla in un quadretto dipinto da Andy non ancora ventenne, nel 1946. Tra le mura spoglie si nota solo un piccolo crocefisso: quello che la madre aveva conservato dopo il prematuro funerale del padre. Le radici orientali spiegano anche la carnagione eternamente pallida e smunta di Warhol. Che però ricorda nel suo diario di aver sofferto da bambino per tre volte di attacchi di un tremolio, diagnosticato come ballo di San Vito, proprio alla vigilia delle vacanze estive.
Una testimonianza del padre domenicano che era parroco a St. Vincent Ferrer, father Sonny Matarazzo, conferma che Warhol era assiduo ogni domenica, anche se non si accostava mai ai sacramenti. Raramente Andy parlava di questa sua devozione. Una volta, il 2 aprile 1984, nei Diari giustificò questa sua riservatezza con una scusa curiosa: «Vado da solo in chiesa perché non voglio che mi vedano fare il segno della croce al contrario, come fanno gli ortodossi (cioè portando prima la mano sulla spalla destra e poi a sinistra, ndr)». Quando morì, il 22 febbraio 1987, sul suo comodino trovarono un crocefisso e il libretto delle preghiere For greek catholics e sulla parete a fianco del letto una riproduzione della Madonna Sistina di Raffaello. Come poteva una stessa persona unire in sé aspetti così opposti? La prima risposta è la più semplice: Warhol aveva una psicologia elementare incapace di scartare qualsiasi cosa. Restava incantato da tutto, e ogni sollecitazione, che fosse consumistica o religiosa, aveva per lui un valore. Ma c’è un’altra possibile spiegazione.
Warhol dalle sue radici si porta dietro la vocazione ad innalzare le immagini ad icone. Poco importa quale fosse il soggetto. Ma l’importante era per lui scovare qualcosa che restituisse un frammento d’eterno anche all’aspetto più banale della realtà.
Quella “matrice” restava come un tono di fondo, pronta ad emergere sotto forme che pochi riconoscevano. Accadde così in quell’agosto 1962, quando appena appresa la notizia della morte di Marilyn Monroe, si applicò a realizzare quello che è forse il suo capolavoro, la Golden Marilyn. Quell’oro venne all’inizio scambiato come un’espansione del biondo dei capelli di quella mitica star, come un trionfo postumo delle luci sfolgoranti di Hollywood. In realtà quell’oro ha radici lontane: sono quelle delle icone che il piccolo Warhol ammirava sulla grande iconostasi della chiesa di San Giovanni Crisostomo a Pittsburgh, dov’era nato. Era l’oro che segnalava l’apparire del divino. Ma non era blasfemo attribuire quell’oro a un personaggio che era solo una star del cinema, seppure la più grande star che il cinema avesse mai generato? Qui sta la sfida di Warhol, la sua capacità di cogliere il segno al di là delle apparenze. Marilyn, in quanto depositaria dei sogni, diventa immagine di un qualcosa che va oltre il tempo. Diventa “icona” decifrabile, riconoscibile da tutti. Segno di una bellezza che supera la precarietà del tempo. Come gli antichi artisti della tradizione ortodossa, Warhol non vuole inventare. Replica un dato di realtà, si lascia guidare la mano come da un automatismo. Non può essere che quella bellezza sia figlia di una parzialità soggettiva, deve essere bellezza vera, oggettiva, decodificabile da chiunque; quindi trovata, non creata dall’artista.
Il primo a capire che questa era la chiave per decifrare Warhol fu Pier Paolo Pasolini. Che nei primi anni Settanta davanti alla serie di Marilyn scrisse queste righe, a cui non c’è nulla da aggiungere: «L’impressione è di essere di fronte ad un affresco ravennate rappresentante figure isocefale, tutte, s’intende, frontali… l’abside della cattedrale che Warhol costruisce e poi getta al vento nei tanti ritagli delle figure isocefale e iterate, è in effetti bizantina». Warhol: così pop, così bizantino.