Giovanni Segantini, <em>Ave Maria a trasbordo</em>, 1886.

SEGANTINI Sempre più su, per toccare il mistero delle cose

A Basilea una mostra racconta la vita drammatica del pittore trentino. Che non ha mai smesso di sperare, come dice attraverso i suoi quadri. Dove «ogni pennellata ti scoppia negli occhi»
Davide Dall'Ombra

«Saprò dare alla Natura che dipingo quella luce che dona la vita al colore, e che illumina e dà aria alle lontananze e rende infinito il cielo?». La vita di Giovanni Segantini (1858-1899) è stata spesa tutta nella ricerca di rispondere a questa domanda, nell’inseguire quella luce, in un pellegrinaggio terreno che l’ha portato sempre più su, fino ad accamparsi sulle Alpi svizzere, per stare più vicino alla sua natura e alla sua luce, fino a lasciarci la pelle. La mostra che ha aperto alla Fondazione Beyeler di Basilea è un’ottima occasione per riscoprire la grandezza di questo pittore troppo riprodotto su poster e cartoline per essere veramente conosciuto. Perché Segantini allaccia la sua grandezza alle trame della materia e ne esce massacrato se riprodotto, diventa subito immagine illanguidita e senza forza. Ma dal vero è un’altra cosa e ogni pennellata ti scoppia negli occhi come fosse stata appoggiata appena prima del tuo arrivo.
Nato ad Arco di Trento da un venditore di chincaglierie dalle precarie condizioni economiche, Segantini è un uomo segnato dalla perdita, fin da piccolo. La scomparsa dei genitori, la madre a otto anni e il padre l’anno seguente, la conseguente perdita delle sue montagne, con il trasferimento a Milano dove viene affidato alla sorellastra Irene, la perdita di un’infanzia serena che lo porterà in carcere a dodici anni, la perdita di una patria, perché Segantini era apolide e, soprattutto, la perdita della fede nella Chiesa. Ma Segantini non è un disperato: «Qui comincia la vita mia personale, tutta a me, alternativamente buona e grama, ma non mai tutta una perchè anche la tristezza ed il dolore non mi rendevano del tutto infelice». Segantini trova, infatti, nella pittura un compito, sente su di sé una responsabilità: «L’arte deve rimpiazzare il vuoto lasciato in noi dalle religioni». Attraversata la formazione a Milano, Segantini parte in fretta per il suo viaggio nella natura e nella luce: la Brianza, nella quale ritrovare la semplice religiosità di un popolo al lavoro, la Svizzera dei lavori nei campi e la natura segnata dalla presenza umana, fino al Maloja, dove l’uomo e la natura si fondono nel ciclo della vita. «Fu in questi paesi che fissai più arditamente il sole, che amai i suoi raggi e li volli conquistare; fu qui che più studiai la Natura nelle forme sue più vive e nel colore suo più luminoso». Ma quale fu il segreto delle opere di Segantini? Certamente la tecnica: «…e incomincio a tempestare la mia tela di pennellate sottili, secche e grasse, lasciandovi sempre fra una pennellata e l’altra uno spazio interstizio che riempisco coi colori complementari, possibilmente quando il colore fondamentale è ancora fresco, acciocché il dipinto resti più fuso. Il mescolare i colori sulla tavolozza è una strada che conduce verso il nero; più puri saranno i colori che getteremo sulla tela, meglio condurremo il nostro dipinto verso la luce, l’aria e la verità».
Ma la tecnica è una conquista che, da sola, non spiega tutta la grandezza di Segantini e per capirlo, come ci ha insegnato Francesco Arcangeli, basta confrontare le sue opere con La Domenica pomeriggio all’isola di Grande jatte, di Georges Seurat, il padre del Pontillisme. Anche il grande Seurat usa una scomposizione del colore, ma il risultato è quella luce violetta che fa sembrare la vita uguale alla morte fondendo animato e inanimato nell’immobilità. Segantini, all’opposto, inseguendo «la luce, l’aria e la verità» fa vibrare di vita il filo d’erba. Quello che cambia è il punto di partenza dei due artisti: per Seurat un’analisi scientifica, per Segantini una domanda. Tutta la sua vita è, infatti, sospinta da una domanda: «Riuscirò io a rendere l’eterno significato dello spirito delle cose?». Un quesito che non rimane astratto e che si declina subito in quello da cui siamo partiti: «Saprò dare alla Natura che dipingo quella luce che dona la vita al colore, e che illumina e dà aria alle lontananze e rende infinito il cielo?». Per Segantini la luce è “l’eterno significato” che è sotteso alle cose e, catturandola sulla tela, cerca di rappresentare in pittura il mistero che l’uomo percepisce essere nascosto nella natura: «Saprò io congiungere l’idealità della Natura coi simboli dello spirito che l’anima nostra rivela?». Ossia: saprò rappresentare contemporaneamente la grandezza e perfezione della Natura e quel suo essere segno del mistero, che il nostro cuore scopre?

SEGANTINI A BASILEA
Basilea (CH), Fondazione Beyeler, fino al 25 aprile.
Info: www.fondationbeyeler.ch