Il rischio di essere realisti

CULTURA - CHAIM POTOK
Luca Doninelli

Seconda tappa del viaggio letterario attraverso i punti chiave de Il senso religioso. Questo mese, in compagnia di Chaim Potok. Lo scrittore ebreo (e i suoi personaggi con lui) alle prese con una partita decisiva. Che arriva a scombinare le carte in tavola. E rimette in gioco fede e conoscenza

Per uno scrittore il primo atto di realismo sta nel comprendere quanto è difficile essere realisti, forse - in un certo senso - impossibile. Il realismo non è uno stile. Non è un’estetica. Non è un tono. Non è un atteggiamento che uno si possa dare. Non è un presupposto. Non è una poetica. Non esiste una letteratura realista che si contrapponga, per esempio, a una letteratura fantastica, perché in una fiaba ci può essere molto più realismo che in un romanzo costruito su una registrazione maniacale, su un controllo ferreo dei dati reali.
A volte è un piccolo episodio, un’immagine, un’intuizione simbolica a conferire a un libro uno spessore di vero realismo. Come ne La casa in collina di Pavese, quando il protagonista non riesce a scavalcare il cadavere di un soldato fascista. Lì avvertiamo un contraccolpo, la realtà è giunta a segno. O come nella mente prodigiosa di Danny Saunders, protagonista del romanzo più famoso di Chaim Potok, Danny l’eletto, la cui eccezionale memoria fotografica è la metafora di tutta la storia del popolo ebraico e della sua tragedia. Una memoria così crudelmente esatta non può mentire.
Il realismo è una mossa dell’anima, della libertà. È lo spaccarsi di una misura con la quale noi cerchiamo di negare il mondo e le cose, facendo dipendere la loro esistenza da un nostro permesso, da una nostra convenienza. Tutti, senza eccezione, facciamo così: magari affermiamo che «il metodo è imposto dall’oggetto» senza però tener conto del sacrificio che queste parole esigono. Solo nel sacrificio ne comprendiamo il significato: altrimenti è solo una formuletta mandata a memoria, un’astrazione come un’altra.
Abbiamo scelto di presentare Chaim Potok introducendo il capitolo sul realismo perché pochi altri scrittori, nell’ultimo mezzo secolo, ne hanno saputo accettare le difficili conseguenze, sia nella vita che nel modo di costruire le proprie opere, come questo grande ebreo.
Nato a New York nel 1929 e morto nella sua casa in Pennsylvania nel 2002, Chaim Potok è stato uno dei più grandi scrittori del XX secolo. La portata dei temi che tratta è essenziale per la comprensione di alcune pagine fondamentali della nostra storia recente. Laureato in letteratura ebraica e in letteratura moderna, studioso del Talmud, Potok fu anche rabbino e in questa qualità partecipò, tra il 1955 e il 1957, alla guerra in Corea. Da questa esperienza trasse uno dei suoi romanzi più originali, Io sono l’argilla.
Ho avuto l’onore di incontrare Chaim Potok tre volte: la prima a Milano nel 1996, in un incontro organizzato dal Centro Culturale, la seconda tre anni dopo, a Rimini, nel corso del Meeting - dove cantò Povera voce con noi -, la terza nel 2002 a Torino, pochi mesi prima della sua morte, quando era già molto malato.
In quest’ultima occasione mi parlò dell’attrattiva che il cristianesimo aveva sempre esercitato su di lui, ebreo osservante. Tutto cominciò con un fatterello occorsogli quando era bambino. Accanto al negozio del padre, sulla Broadway, c’era quello di un ciabattino italiano che cantava sempre a squarciagola arie d’opera ed era sempre contento. Questo ciabattino era molto religioso: teneva il rosario appeso a un gancio e aveva diverse bottigliette con l’acqua di Lourdes. Il bambino ne rimase così affascinato che tanti anni dopo, già molto malato, Potok mi disse queste parole: «Sa, credo di non essere più uscito da quella bottega. Io sono ancora lì».
Eccolo, il contraccolpo della realtà. Potok pagò a caro prezzo questo suo atteggiamento. Lui, che per moltissimi anni è stato uno dei candidati più quotati per il Nobel, non lo ottenne mai, nonostante la gioventù ebrea americana vedesse in lui non solo un grande scrittore ma una sorta di maestro, di autorità spirituale.

Dio e la storia. Tutti i grandi scrittori ebrei del XX secolo hanno affrontato con profondo impegno il grande tema del rapporto tra Dio e la storia. Per qualcuno (da Isaac B. Singer a Woody Allen passando per Philip Roth) la storia è semplicemente la negazione di Dio, la sanzione della sua inesistenza. Altri (per esempio Saul Bellow) riconoscono che la storia non ha schiacciato completamente Dio (e con lui l’uomo) e chiudono la loro opera nel segno di un’apertura quasi stupita.
Potok assume una posizione più complessa - più realista, appunto, in quanto più accanitamente rispettosa di tutti i fattori in gioco - in parte ispirata alle sue vicende personali. Egli è infatti rabbino e studioso della Scrittura, ma è anche scrittore “laico” perfettamente inserito nella sua epoca (scoprì la sua vocazione letteraria da ragazzo, leggendo Joyce) e, sulla scia degli interessi della moglie, che è psicologa, studia a fondo Freud.
In Danny l’eletto, uno dei grandi best sellers del Dopoguerra (3 milioni e mezzo di copie vendute in pochi mesi solo in America), incontriamo i destini incrociati di due ragazzi: Reuven, l’io narrante, è figlio di un giornalista studioso del Talmud e la comunità alla quale appartiene è già relativamente laicizzata, di quelle che il padre di Danny - rabbino chassidico super-ortodosso, che rivolge la parola al figlio solo per parlare della Bibbia - considera ormai perdute.
Siamo al termine della guerra. Il rapporto tra Reuven e Danny inizia durante un incontro sportivo, dove tra i membri delle due comunità scoppia una lite e Danny, furioso, scaglia una pallina contro Reuven rompendogli gli occhiali. Una scheggia finisce in un occhio del ragazzo che viene trasportato in ospedale. Da lì, imprevedibilmente, nasce tra i due una profonda amicizia che verrà messa alla prova da molti eventi personali e storici: tra questi, la notizia spaventosa della scoperta dei campi di sterminio nazisti.
Il vecchio rabbino giunge a proibire a Danny di vedere Reuven quando, leggendo un articolo di suo padre, scopre che anche lui è favorevole alla fondazione di uno Stato d’Israele. Per un chassid nessuna iniziativa umana può sovvertire l’ordine divino: solo quando Jahvè lo vorrà, alla fine dei tempi, si potrà stabilire il Suo regno sulla terra.
Ma la Shoah ha cambiato molte cose. In altri libri di Potok si torna su questo punto, come nel romanzo autobiografico In principio o nell’altro grande capolavoro di Potok, Il mio nome è Asher Lev. Già durante la guerra gli ebrei polacchi (di cui Potok è discendente) venivano venduti dall’esercito polacco e da quello russo ai tedeschi. L’umiliazione per essere ridotti a carne da macello determinò la ribellione di molti soldati ebrei, che decisero una volta per tutte che la storia andava affrontata con il metodo della storia: la forza e, quindi, la politica e le armi.
Questa forma di realismo (anche qui si potrebbe dire: be’, il metodo è stato imposto dall’oggetto) non è molto diversa da quella alla quale assiste il giovane newyorkese Asher Lev, il cui padre è incaricato dal rabbino - siamo all’inizio degli anni Cinquanta - di acquistare dalla Russia di Stalin gli ebrei per portarli in America. È il realismo degli affari, del business, della politica durante la Guerra Fredda. I soldi e il potere stanno diventando, insomma, due personaggi troppo importanti sulla scena del mondo: occorrerà affrontarne le conseguenze. Ma per molti affrontare le conseguenze significa solo adeguarsi, seguire l’onda. È questo il realismo?
Per tornare a Danny, i disegni di suo padre, piissimo custode della tradizione ebraica, andranno in frantumi con la notizia, da un lato, della nascita dello Stato d’Israele e, dall’altro, con la decisione di Danny, da lui avviato alla carriera rabbinica, di studiare Freud e di esercitare la professione dello psicologo.

Fine del viaggio. Una tradizione mantenutasi immutata per duemila anni - quella della comunità ebraica della diaspora, stretta intorno al rabbino e al beth din, il tribunale nel quale la comunità dirimeva tutte le controversie - giunge, con l’ingresso (tragico) nella modernità, alla fine del suo viaggio. Il XX secolo ha reso impossibile ciò che venti secoli spesso terribili non avevano saputo cancellare.
A determinare il tracollo non sono soltanto i pogrom e nemmeno Auschwitz, ossia tragedie talora immani ma isolate, riconducibili alla follia criminale o all’ignoranza. C’è una resa di tanti figli di Abramo alle presunte leggi della storia (denaro, potere), una rinuncia al privilegio, alla primogenitura, all’alleanza che Jahvè stabilì per sempre con il suo popolo, per diventare come tutti: quasi un volontario precipizio nel nulla.
Danny, l’eletto - eletto dal padre per diventare rabbino, eletto davanti al mondo per le sue doti prodigiose - non rinuncia alla fede antica, ma sceglie di conservarla affrontando direttamente lo strazio del dissidio: lui, che non può giocare a dimenticare (questo è il senso della sua memoria implacabile), decide di giocare la sua partita nella direzione di Freud, cercando, forse, di salvare, nella confusione che ci domina, il Padre che permane dentro ciascuno di noi. Questo è il realismo per Potok: non cavalcare la tigre, ma accettare il dramma con un “sì” doloroso ma senza condizioni.

La crocefissione. Anche nella vicenda ancora più drammatica de Il mio nome è Asher Lev, il tema della paternità si incrocia con quello di una condizione umana in cui Dio sembra offrire ai suoi figli due indirizzi contraddittori. Asher Lev è un giovane figlio di una famiglia chassidica che scopre fin dalla più tenera età di avere una propensione eccezionale per l’arte figurativa. Sembra predestinato a diventare un grande artista. Il chassidismo, però, condanna l’arte ritenendola un tentativo indebito dell’uomo di scimmiottare la creazione di Dio. Il padre - tra un viaggio in Europa e l’altro - bolla la sua presunta vocazione come una sciocchezza.
Ma la madre di Asher Lev è una donna diversa. Ligia al proprio ruolo di moglie, è però una donna dall’animo sensibile, malinconica, profondamente diversa dal marito. Tra i due coniugi non sembra esserci vero amore, quanto piuttosto la fedeltà a un patto silenzioso. Asher Lev viene a poco a poco a conoscenza del tormento che la madre porta chiuso in sé, un tormento che prolunga in lei dopo la guerra, senza fine, gli orrori della Shoah. L’uomo che ella ha sposato è il fratello dell’uomo che ella amava, e che morì ucciso dai tedeschi. Fu un atto di lealtà verso il fratello morto a indurre il padre di Asher Lev a prendere in sposa quella donna. Ma questo non fu sufficiente a traghettarla verso una vita nuova.
Poi, un giorno, Asher Lev disegna la madre crocefissa: un’opera giovanile che però è la premessa di quello che sarà uno dei temi fondamentali nell’opera adulta dell’artista. Questo gesto scandalizza la comunità chassidica: per il popolo di Abramo tutti i mali non ebbero inizio proprio con la crocefissione di quel Nazareno?
Ma Asher Lev, che in seguito viaggerà in Europa legandosi a un maestro ebreo non osservante, non può fingere che il suo sia un capriccio: il crocefisso (che lui usa semplicemente come figura, senza riferimento esplicito al cristianesimo) è la figura, la forma adeguata per raccontare la tragedia senza fine della madre, che tiene viva dentro di sé come una fiamma la memoria di chi amò e non è più.
Proprio perché la Shoah non fu soltanto una tragedia collettiva, bensì la tragedia di tanti “io”, e delle loro infinite memorie, la crocefissione - un corpo, il corpo di Dio!, attaccato al legno mediante dei chiodi - è la sola immagine concreta, adeguata a raccontare uno strazio che nulla ha di generico. Così la storia ha ucciso Dio, e la sola inconfessabile (ma anche la sola ragionevole) speranza è che sia davvero risorto.
Questo romanzo, in cui la riflessione di Potok sulla storia raggiunge il punto più profondo, portò gloria e guai allo scrittore, al quale diversi membri della comunità ebraica newyorkese non perdonarono di avere scelto, come immagine adeguata della tragedia ebraica, un simbolo cristiano. Tanto che nel romanzo Il dono di Asher Lev - che continua il precedente - pur molto bello, il dissidio di questo artista di stirpe chassidica viene riassorbito in una riconciliazione che sembra più un patto di non belligeranza: il rabbino ha capito che l’arte è per lui un bisogno, e lo rispetta: ma il vecchio scandalo non c’è più. Ora Asher Lev è soltanto un artista, uno dei tanti artisti di successo.
C’è nell’opera di Potok una fede profonda che forma un tutt’uno con la sua fiducia nell’imponenza della realtà, anche quando essa sembra andare contro la fede. L’accettazione coraggiosa di questa condizione drammatica è, fra i tanti meriti di questo grandissimo scrittore, forse il più grande. Per questo, e non solo perché inserisce il cristianesimo nel cuore del dramma ebraico, Chaim Potok non può non essere un grande amico. Lo fu in vita, continua a esserlo oggi attraverso la sua opera.