La copertina del libro.

Nel lager, qualcosa che assomigliava alla felicità

In un'intervista pubblicata da Einaudi, lo scrittore ebreo racconta della vita nel lager, «organizzazione diabolica del Male». Ma Levi ne parla da uomo libero. Attaccato soltanto a una «remota possibilità di bene»
Alessandro Banfi

È sempre commovente leggere e quindi sentire parlare un grande scrittore scomparso, col suo linguaggio e il suo carattere. Questa intervista ora pubblicata da Einaudi ha il merito di metterci di nuovo in contatto con lui, attraverso la trascrizione di una conversazione registrata, avvenuta il 27 gennaio 1983 con due studiosi torinesi, Anna Bravo e Federico Cereja. Levi risponde a tutte le domande sulla vita nel lager, ma rifugge costantemente dalle teorizzazioni e dalle ideologizzazioni, quasi infastidito che a lui si chiedano criteri di giudizio, sentenze filosofiche o morali. Levi vuole restare ai fatti, è testimone di quello che ha vissuto e lo ripete con la consueta precisione, da chimico, ma anche da uomo libero. Libero in quanto mal sopporta proprio etichette e qualifiche. Ma c'è una cosa che dice all'inizio, anche se è quasi lasciata cadere nell’economia del dialogo dai due intervistatori: «Io credo di essere stato salvato da alcune amicizie, anche per un fatto importante per noi italiani, ebrei italiani: la mancata comunicazione. (...) Una persona amica era un salvataggio. Ora questo ragazzo, Alberto, di cui io ho spesso parlato nei miei libri, era l'uomo adatto. (...) io trovavo in lui un salvatore; cosa trovasse lui in me, che lui mi diceva: “tu sei un uomo fortunato”. Non so bene su quale base, ma infatti il destino l'ha poi dimostrato: io sono fortunato».
L'amicizia nel lager, l'umanità ad Auschwitz, nella più diabolica organizzazione umana del Male una «remota possibilità di bene», come dice appunto parlando di Alberto in Se questo è un uomo. Pensate al capitolo sul Canto di Ulisse, il racconto di una mattina di poesia ed umanità in mezzo all'orrore... Era anche questo il grande Primo Levi. La coscienza della grazia, della fortuna, nella più assoluta disgrazia. E una non cancella l'altra. Una straordinaria, onesta, realistica apertura dell'umano all'Infinito. Qualcosa di irriducibile e non censurabile dal Potere più spietato e assoluto. Qualcosa che fa tornare alla mente il finale di un altro grande romanzo sui campi di concentramento nazisti, quello di Imre Kertesz, Essere senza destino: «Non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d'ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell'intervallo tra i tormenti c'era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli "orrori": sebbene per me, forse, proprio questa sia l'esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno»

A cura di Anna Bravo, Federico Cereja
Intervista a Primo Levi, ex deportato
Einaudi
pp. 93 - € 10