L'architetto Mario Botta

Mario Botta, spazio al silenzio

Ha costruito spazi pubblici e privati in tutto il mondo. Abbiamo incontrato l'architetto svizzero per parlare di Michelangelo e dei suoi disegni, ora in mostra. E di come una chiesa deve essere «utile anche a chi non ci entra mai»
Luca Fiore

Appoggia gli occhiali tondi sulla fronte e sfoglia le pagine del catalogo della mostra “Michelangelo architetto” allestita fino all’8 maggio 2011 nelle sale viscontee del Castello Sforzesco di Milano. «Guardi che meraviglia questa pianta per San Giovanni dei fiorentini!». Sarà anche un archistar, ma Mario Botta sa ancora stupirsi. Abbiamo incontrato l’architetto svizzero a Lugano per parlare di questa mostra che per la prima volta raccoglie una cinquantina di disegni provenienti da Casa Buonarroti e che documentano l’attività architettonica del genio fiorentino. Ci sono, tra le altre cose, i progetti degli edifici ultimati in prima persona da Michelangelo (la Sacrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze e della Biblioteca Laurenziana), quelli ultimati da altri (San Pietro e Porta Pia) e quelli che invece non furono mai realizzati e di cui solo questi disegni ci lasciano testimonianza (la facciata di San Lorenzo e la Libreria segreta della Laurenziana).

Quali sono, secondo lei, i tratti distintivi del Michelangelo architetto?
Michelangelo lo conosciamo di più come scultore e pittore che non come architetto. Eppure la sua personalità è talmente forte che tutte e tre le discipline vengono investite allo stesso modo della sua sensibilità plastica. Al di là dei canoni classici di riferimento, che lui cerca di superare, la sua grandissima personalità piega l’architettura a elemento plastico. Lo spazio esterno si fonde con lo spazio interno e il fruitore non può che percepire questa tensione.

Che cosa le è piaciuto di questa raccolta di disegni?
Non li conoscevo e sono rimasto assolutamente affascinato dal tratto. Ogni volta che Michelangelo disegna un elemento architettonico non ne fa la rappresentazione ortografica pianta-alzato, ma è sempre un accentuarne i valori chiaroscurali. Per me è un godimento vedere questi disegni proprio perché, più che lo schema architettonico, sono la rappresentazione del valore tridimensionale degli elementi. Prendiamo la facciata di San Lorenzo a Firenze: di ciascuna parte ne viene sempre accentuato un frammento per cogliere il valore tridimensionale e quindi il valore scultorio.

Qual è l’edificio di Michelangelo a cui è più legato?
Di lui rimango affascinato dalle geometrie. La forza dell’architettura di Michelangelo, è che riesce a prendere gli elementi architettonici, le lesene, le colonne, i timpani, i prospetti e li piega per poi scoprirne una loro geometria propria.

In che senso?
Vi è come una scoperta della geometria, e questo forse è il fatto più interessante che io sento molto congeniale anche al mio modo di fare. La geometria non è una condizione di partenza, è il punto di arrivo. Alla fine del percorso si ritrovano delle componenti di simmetria, di geometria, che in partenza non si evidenziavano. E questo dà il senso come di una purezza; restituisce il senso della certezza di un equilibrio, di una pace, di una serenità. Quando si entra in uno spazio di Michelangelo si è spinti quasi in maniera automatica a innalzare gli occhi al cielo, perché la costruzione è una costruzione che si completa, la geometria è un qualcosa che parte da terra, ma che resta in attesa del suo compimento.

Perché è un modo che sente vicino?
Perché quella della geometria come punto di arrivo e non di partenza è un aspetto presente molto anche nell’architettura contemporanea. È un processo di avvicinamento continuo, di approssimazione. Non vi è una certezza a priori e quindi è bello ritrovare delle composizioni, in questo caso delle costruzioni geometriche, dopo un percorso magari anche faticoso, articolato, segreto, silenzioso. E alla fine si ritrova una forma compiuta che ha una ragione d’essere al di là delle ragioni tecniche, costruttive o statiche, delle ragioni legate al processo.

Alcune piante di edifici di Michelangelo sono dei capolavori assoluti, anche se le costruzioni poi non sono mai state realizzate. A volte sembra che l’idea di partenza non sia l’alzato, ma la pianta. È vero?
Sì. Io credo che Michelangelo attraverso la pianta abbia sempre percepito l’alzato. Quando si vedono queste piante - che meraviglia quella di San Giovanni dei fiorentini! - con queste nicchie geometriche, con queste composizioni, l’architetto intuisce anche l’alzato. Non sorprende che gli alzati di Michelangelo non abbiano mai misure. Perché la pianta, quando è così precisa, porta con sé l’idea dell’alzato. La sezione è la rappresentazione dello spazio ma ciò che genera lo spazio è la pianta. Perché la pianta, e quindi la sua geometria, è la generatrice della luce. Senza luce non c’è spazio.

In mostra c’è un foglio con gli elenchi dei pezzi di marmo per la facciata di San Lorenzo. Erano talmente grandi che non riuscivano a estrarli…
Sono stato sul Monte Altissimo, a Seravezza. Mi aveva molto impressionato che il sentiero che portava alle cave di Michelangelo fosse disegnato con degli allargamenti strani nelle curve. Poi la gente del luogo mi ha spiegato che gli slarghi non servivano per facilitare la salita, ma ad agevolare la discesa dei cavisti morti sotto ai blocchi. Questo per dire che il processo costruttivo costava sangue, vite umane. Allora c’era non solo un’attenzione alla scelta della qualità dei blocchi per la loro tenuta statica e per la loro bellezza estetica, ma anche la consapevolezza dei sacrifici che sono costati l’estrazione e il trasporto. Quando questi blocchi arrivavano sul cantiere erano dei pezzi pregiati. Non è a caso che cinquecento anni dopo continuano ancora a parlarci.

Lei ha costruito dodici chiese e ne ha due in cantiere, una a Sambuceto nella diocesi di Chieti e una cattolico-ortodossa a Leopoli in Ucraina. Da che cosa parte quando deve progettare una chiesa?
Una chiesa oggi pone moltissimi problemi. Però la prima cosa è la sorpresa che ci sia una commessa. In una società secolarizzata, apparentemente lontana dai problemi dello spirito, questo fatto costituisce una domanda. L’altra grande domanda per chi deve progettare è come interpretare oggi il bisogno di sacro. La mia generazione è orfana di modelli perché le avanguardie, penso a Duchamp e a Picasso, hanno stravolto non solo il senso estetico, ma anche il senso etico del rapporto fra l’uomo e il proprio spazio. La terza grande questione è il fatto che mentre per altre tipologie, come la biblioteca o il teatro, c’è stata una grande evoluzione legata al cambiamento delle esigenze che esse esprimono, per la chiesa questo non è accaduto: c’è l’altare come luogo del sacrificio e il popolo dei fedeli. Dal punto di vista funzionale nulla è cambiato.

Dove sta, quindi, il problema?
È cambiato il nostro modo di vivere questo evento straordinario che è la funzione liturgica. Il compito dell’architetto è quello di interpretare, di cercare di capire, quali sono ancora gli spazi riservati per questa attività particolare in una società che grida, in una società rumorosa, nella quale il correre è la costante. La sfida oggi è risolvere il rapporto tra la chiesa e il contesto in cui essa si va a collocare. Che cos’è una chiesa in montagna? In una periferia urbana? Io credo che la vera difficoltà per l’architetto sia questa: capire qual è il ruolo che gioca l’architettura della chiesa nel contesto, perché inevitabilmente quello che si va a stabilire è un rapporto di dare e avere reciproco.

In che senso?
Quando mi commissionò la cattedrale di Evry, il cardinal Jean-Marie Lustiger ebbe l’intuizione del “ritorno del monumentale”. Per lui l’edificio-chiesa doveva diventare un punto di aggregazione, un punto di riferimento, una presenza silenziosa nel contesto. Era il bisogno di riaffermare qualcosa dopo la cultura sessantottina che sosteneva che la messa si poteva dire anche in una fabbrica o in qualunque altro posto. Si diceva che ognuno di noi ha una spiritualità che si può esprimere anche in riva al fiume… Ma cosa vuol dire? Il tema è un altro. La questione è stabilire uno spazio dove la collettività condivide questa esperienza. In quest’ottica l’architettura di una chiesa deve dire delle cose a chi la utilizza, ma anche deve dirle a chi non la utilizza.

Perché anche a chi non la utilizza?
Io avevo sostenuto, con tanta fatica e con molti malintesi da parte cattolica, che la chiesa è importante anche per chi non va in chiesa perché essa diventa segno di una presenza che parla di questo bisogno di comunità. Questa cosa l’ho imparata quando ho ristrutturato la Scala di Milano. Molta gente mi chiamava per raccomandarsi che facessi un bel lavoro. Ma era gente che magari alla Scala non ci era mai entrata e non aveva nessuna intenzione di entrarci, ma diceva: «La nostra città è più ricca se ha il teatro bello». Nella loro ingenuità queste persone avevano capito che il teatro, come luogo dell’immaginario collettivo, era importante come istituzione anche per chi non la utilizza. Così è anche un po’ per la chiesa. È importante sapere che nella città c’è un luogo con queste caratteristiche, predisposto a un culto collettivo, anche se poi ci passo solo di fianco senza entrarci. La chiesa deve essere bellissima anche quando è vuota. Anche quando entra solo una persona deve poter dialogare oltre il finito.

Quali sono le architetture sacre moderne che ama di più?
Riconosco che il moderno ha molte difficoltà nell’esprimere il sacro. Io amo quelle dove è presente una grande arcaicità. Amo le architetture semplici, essenziali, dove è possibile ricostruire gli spazi di Michelangelo da una parte e gli spazi precristiani dall’altro. Quindi se devo fare dei nomi dico Tadao Ando e Alvaro Siza. Sono due architetti contemporanei che mi sembra siano riusciti a spogliarsi della retorica celebrativa comune a tante architetture gridate che si fanno oggi. Hanno saputo creare spazi che permettono al visitore una maggiore predisposizione a questa attività semplice che è il silenzio.

Negli anni Sessanta sono state costruite moltissime chiese, alcune progettate da grandi architetti. Come giudica quella stagione?
Ce n’è qualcuna onesta, ma ce ne sono di molto brutte. Secondo me il buon architetto non ha mai fatto una cattiva chiesa. Sono i geometri pasticcioni… dove fanno il pastiche, dove fanno la bizzarria invece del rigore. Le chiese disegnate da Gio Ponti, ad esempio a Milano, sono quelle che secondo me, ancora oggi, rispondono in modo migliore. Le peggiori sono quelle delle periferie dove invece di dare il progetto al buon architetto lo hanno dato - dico ora una cosa dura - al buon fedele. Anche se era un cattivissimo architetto. È questo il grande equivoco, anche della committenza.

Sta dicendo che i buoni cristiani sono cattivi architetti?
No, dico che non si può valutare l’architettura unicamente con il parametro della fede. Qualcuno dice che una chiesa deve essere tradizionale, e se uno è un bravo fedele può fare senza problemi una buona chiesa. Bé, sarebbe negare tutta la cultura del contemporaneo. È come mettersi fuori dalla storia. Un po' come se invece di vestirsi con Armani, uno decidesse di andare in giro come se fosse nel Medioevo. Ma di fronte a certi disastri del Novecento, a questi garage venduti come chiese, si può anche capire questo tipo di reazione. Mentre invece io credo che la chiesa deve essere il top, il meglio dell’architettura.

Eppure c’è l’esempio della Sagrada Família…
È un’eccezione. È un unicum irripetibile. Innanzitutto per la grandissima qualità dell’architetto: Gaudí. Irripetibile. Forse il più grande creativo del XX secolo. E secondo: la sua straordinaria fede. Ma dove trovi oggi questa congiunzione che fa sì che anche senza di te un edificio possa essere compiuto? Impossibile. Poi ci sono tanti difetti nella Sagrada Família e sarebbe facilissimo criticarla. Ma comunque resta nel panorama un caso straordinario, è un unicum, impossibile pensare nella cultura del moderno di ripetere un’avventura così.

Recentemente anche Oscar Tusquets Blanco, uno degli architetti che negli anni Sessanta si schierò contro la continuazione del progetto di Gaudí ha dovuto ammettere la grandezza dell’opera finita…
Le idee della vita sono più forti di quelle degli architetti, ogni tanto. Mi fa piacere.