Folla di immigrati.

Se dalle "carrette del mare" sbarcano marziani

Protagonisti al Festival di Venezia, ora candidati all'Oscar con "Terraferma" di Crialese: gli immigrati. Tante facce che scorrono sul grande schermo. Ma in fondo quanti "uomini" sono raccontati davvero?
Emma Neri

Oramai sono i protagonisti assoluti del cinema italiano, almeno a giudicare dalla selezione presentata all’ultimo festival di Venezia: africani, tunisini, algerini, insomma immigrati. Senza dimenticare i cinesi, che cominciano a spuntare tra un titolo e l’altro. Una specie di grande manifesto pubblicitario, con tante facce e poche persone. Perché il cinema che li racconta non dice molto, di loro: lingua, storia, bisogni, desideri, speranze. Sappiamo poco quando entriamo in sala e abbiamo capito meno quando ne usciamo. Neanche fossero marziani. E infatti così li raccontano, come marziani, gli unici due film che si salvano in questo diluvio di cinema cosiddetto engagée: il bizzarro L’ultimo terrestre di Gian Alfonso Pacinotti, che disegna un alieno piccolo e servizievole, quasi un bambino, che scappa appena sente l’aria che tira sulla terra, e il grottesco L’arrivo di Wang dei fratelli Manetti dove, a denunciare il marziano che parla cinese, è un’africana cattiva che lo chiama “il mostro”. Lo chiama così anche l’agente dei servizi segreti Fantastichini che lo interroga: «Parla, brutto mostro! Che cosa volete, lei e la sua gente, da noi?». Negli anni 60, il sublime Flaiano ci andava più leggero nel racconto Un marziano a Roma: «A marzià! Te scansi?». Ma il concetto era lo stesso. Magari sono loro - gli immigrati marziani - che non si spiegano. Magari siamo noi che non capiamo il cinese. O magari è il nostro cinema che ha la presunzione di raccontare quello che non conosce. E se è vero che per i registi vale una massima - seguire quello che fanno e non quello che dicono -, inversa a quella suggerita dal buonsenso per i preti, certe dichiarazioni colpiscono.
Al Lido, infatti, si sono tutti affannati a mettere le mani avanti dicendo che il loro film era diverso da quello che sembrava. Due registi a caso. Crialese: «Terraferma non è un film sull’immigrazione… non è un film sui respingimenti». Patierno: «Cose dell’altro mondo non è un film politico… Non è un film ideologico». E via a parlare di Territori, di Altro e di Altrove. Fatto sta che, tra i film italiani prodotti quest’anno sull’immigrazione - un fenomeno quantitativamente così rilevante che Le Monde l’ha addirittura definito «un nuovo genere» - e lo sbandierato ritorno alla realtà del nostro cinema, resta un gap enorme. E se questi film sembrano un passo avanti sul cammino di un confronto serio con la realtà, almeno rispetto agli amorazzi adolescenziali vissuti tra “due camere e cucina” cui eravamo abituati, i conti non tornano. Neppure sul fronte del botteghino, ma questa è un’altra storia. Un occhio ai film, innanzitutto: Terraferma di Crialese, che si è portato a casa un molto generoso Premio Speciale della Giuria e Là-bas del documentarista Guido Lombardi, che ha vinto il premio per l’opera prima e che, insieme a Io sono Li di Andrea Segre, rappresenta la generazione dei trentenni. C’è Il villaggio di cartone, apologo del maestro ottantenne Ermanno Olmi, ci sono i film dei registi di mezzo che hanno fatto la gavetta nel documentario, Cose dell’altro mondo di Patierno, Storie di schiavitù di Barbara Cupisti.
Aldilà dei linguaggi diversi, c’è un fattore che unisce questi film e li frena nelle loro potenzialità, riconducendoli all’interno di scelte retoriche. I personaggi non sono persone ma solo ruoli e funzioni narrative (una scelta dichiarata nel film di Olmi). C’è come un difetto dello sguardo, una ritrosia ad andare al fondo delle contraddizioni che fanno il nostro tempo, un problema di scrittura che porta la cinepresa a deviare dal dramma verso un obiettivo più facile: il nemico. Immigrati buoni e poliziotti cattivi, vecchi pescatori saggi e borghesi piccoli piccoli, come Beppe Fiorello in Terraferma, pronti a ributtare in mare il clandestino per realizzare il sogno di un villaggio vacanze a Linosa. Una vecchia storia che si traduce in storie vecchie, monche o ideologiche, nel lamento greve, nella polemica facile. Tutti uniti, addirittura con un pubblico appello presentato al Lido, contro le leggi di un governo razzista e di destra che, secondo i nostri portavoce, punirebbero chi osa soccorrere un clandestino in mare. Per la cronaca, non è vero. È vero invece che la legge comunque arranca ad inseguire la vita e la cronaca, che sempre debordano la geometria delle regole. Ed anche questo sarebbe un bel tema: ma resta lì.
È abbastanza facile così, per i critici di Le Monde, scrivere che «il cinema italiano salva l’onore del suo Paese», riferendosi al giudizio terrificante sull’Italia e sugli italiani razzisti che arriva da Chioggia a Castelvolturno, fino a Linosa. Salvo notare poi che l’onore sarà anche salvo ma le sale sono vuote, eccezion fatta per l’unico che, ridendo e scherzando, ha fatto i soldi con l’amore irriverente di un pugliese per una bellissima immigrata, per giunta terrorista: Checco Zalone. Perché i grossolani leghisti del Nord Est non fanno ridere, anche se il capitano è Abatantuono: e Cose dell’altro mondo - che ha ripescato addirittura una storia messicana di Arau per raccontare la scomparsa improvvisa di tutti gli immigrati - non marcia. Perché i pescatori siciliani di Terraferma sono veramente poco credibili nel loro epico pauperismo e fanno venir voglia di gridare: «Arridatece Visconti!». Quello de La terra trema, cui (forse) si ammicca nel titolo di Crialese, soprattutto quello di Rocco e i suoi fratelli che, grazie alla penna di Testori, raccontava gli immigrati meridionali degli anni Sessanta, quelli sì, veri. Perché Là-bas, racconto sapiente di un’educazione giocata tra razzismo e camorra, frana nelle immagini televisive della rivolta di Castelvolturno. Dulcis in fundo: possiamo aggiungere che portare gli attori al Lido, su un gommone che si fa largo tra i motoscafi di Clooney e i traghetti dei divi minori, non è un’idea carina?
Insomma, l’aria che si respira è sempre quella: la speranzella dei film che cambiano il mondo. Non è proprio così: i film, quando sono grandi, aiutano a capire il mondo. E per essere grandi, hanno bisogno di uno sguardo consapevole di sé, della propria storia, del mistero che rappresentiamo a noi stessi. E allora, sì, capire il mondo cambia, ma noi. Lo sapeva Amelio che, nel 1994, aveva girato Lamerica soltanto tre anni dopo l’inizio degli sbarchi albanesi sulle nostre coste. Per raccontare quelle navi stracariche di umanità affamata e dolente, ci aveva messo su un italiano ambiguo, che partiva per fare soldi e si scopriva uguale a loro, gli alieni. Un film onesto, che parlava di noi, della nostra identità, della irriducibile diversità che ci fa uomini, dell’incapacità di perdonare all’altro, all’immigrato ma anche al vicino, questa diversità. Proviamo a ripartire da lì?