"Il fuoco" di Giovanni Colciago.

Raggi di luce che squarciano il buio

Fino al 16 dicembre Giovanni Colciago espone nella Domus Clugiae a Chioggia le sue pitture. Segni grafici, pennellate movimentate e colori forti. «Così racconto la mia vita e i legami più importanti»
Pietro Bongiolatti

Per parlare della sua pittura Giovanni Colciago, in arte Giò Fuoco, racconta la vita sua e dei suoi amici. È anche merito loro se a Chioggia, all’ostello Domus Clugiae, fino al 16 dicembre saranno esposte sedici opere dell’artista nato 41 anni fa a Carate Brianza. L’idea è partita tra i padiglioni del Meeting di Rimini, dove da dieci anni Giovanni ha uno spazio per dipingere e esporre. In tanti lì l’hanno visto all’opera, come Ennio Morricone, che l'ha notato in Fiera e ha comprato due tele, o come Moreno Marcon e Piergiorgio Bighin, che nel trambusto del Meeting sono stati attratti dai colori di Giò Fuoco e hanno voluto scoprire cosa c’è dietro quella tempesta di cromie.
Gli si è aperto un mondo, che hanno voluto far conoscere a tutta la città di Chioggia. Così sabato 22 ottobre, all’inaugurazione della mostra, Giò Fuoco ha raccontato la sua avventura artistica: «Ho cominciato scrivendo poesie, dopo la morte di mia madre vent’anni fa. Avevo dentro un dolore enorme che, a differenza dei miei fratelli, non riuscivo a esprimere. Finché ho scoperto la poesia. È stato lo strumento con cui ho fatto fluire la mia tristezza, l’ho finalmente mostrata all’esterno, agli amici. Ho imparato a raccontare le mie emozioni, sia la gioia sia l’afflizione, attraverso le immagini evocate dalle parole». Pochi anni dopo, nel 1995, un altro evento doloroso segna la vita di Giovanni: sta male e viene ricoverato in ospedale. Per esprimere ciò che viveva in quella situazione scrivere non era più sufficiente: «Disegnavo attorno e dentro alle poesie, così immagini e testo erano una cosa sola, poesia e quadro convivevano. È stato un modo ancora più espressivo di raccontarmi. Da allora non ho più smesso di dipingere». Nel tempo pittura e poesia sono tornate a dividersi, seguendo strade diverse, ma nelle tele di Giò si vede ancora il segno di quell’iniziale compresenza: «La mia pittura si può definire astrattismo simbolico. Non ci sono figure precise, ma nel momento in cui le mie emozioni sono sulla tela non sono più astratte, prendono forma: numeri, volti, ponti». Sono segni grafici che rappresentano altro: amici e legami, sono «simboli di vita». È la vita, che Giovanni vuole rappresentare, e per farlo il suo stile ha continuato ad evolversi: «Nel 2003 ho pubblicato la raccolta di poesie Una rosa frustata (Itaca), che è il titolo di un brano cui tengo particolarmente. Da lì mi è venuta l’idea di “frustare” i miei quadri. Prima la cornice era uno spazio da riempire. Dei quadrati con un contorno nero, dentro cui mettere del colore omogeneo, erano statici. Ora dipingo con dei colpi, con un movimento di base che fa muovere il quadro, lo fa vivere». Girando per le sale della Domus Clugiae, Giovanni ha incontrato i visitatori, li ha conosciuti e ha raccolto le loro impressioni e domande: «Ha colpito nel segno l’uso dei colori: sono sprazzi di luce che squarciano il buio. Come, grazie agli amici, è successo e continua a succedere nella mia vita».