Marco Paolini nei panni di Galileo.

Paolini e quel Galileo anti-caricature

In scena la storia di un uomo che preferisce la realtà ai principi altisonanti. Tra oroscopi e ignavia intellettuale, un percorso rispettoso del passato e adatto all'oggi che spazza via una lettura vecchia e polverosa
Tommaso Ricci

Sempre siano lodati gli Istituti tecnici che hanno meritato una tale lectio magistralis, di fronte alla quale tanti accademici (in particolare i firmatari della roboante lettera antiratzinger di funesta memoria – funesta non per Ratzinger bensì per l’onore dell’Univerità La Sapienza di Roma) fanno la figura di balbettanti maestrini. Onore a Marco Paolini che, parlando del grande Galileo per due ore ha osato paragoni temerari come Giordano Bruno = Mago Otelma o addirittura “oltraggiosi” come Galileo = Berlusconi, questi ultimi due posti sotto l’insegna italica del «sono stato frainteso dai media», cioè dai padroni dell’opinione pubblica, allora la Chiesa oggi la stampa. Onore a Paolini che con lo spettacolo Itis Galileo sfida la legge di gravità di certo barbogio laicismo e con leggerezza funambolica offre una “narrazione galileiana” calata nel tempo storico, rispettosa dello ieri e adatta all’oggi.
Invita il pubblico in sala a stupirsi: «Vi immaginate quei due, Galilei e Papa Urbano VIII a passeggio mentre conversano e discutono amabilmente di astronomia. Provate a immaginare oggi papa Ratzinger e Margherita Hack nella stessa situazione! Sarebbe impossibile!». Vero, verissimo, arcivero. Ma allora non erano passati 400 acrimoniosi anni di bisticci e caricature postume sul “caso Galileo”. Allora era Galileo in persona a godere della stima e della simpatia del Pontefice.
Paolini smonta il ridondante apparato ideologico, ormai polveroso e cigolante, scioglie il braccio di ferro tra fede e ragione, tra oscurantismo e laicità illuminata, costruito attorno a quella eclatante vicenda. Fa intendere la natura dell’errore che la Chiesa ha commesso ed anche pagato ad alto prezzo, regalando ai suoi nemici (protestanti ed atei) quel che poteva con un po’ di fantasia politica diventare suo imperituro vanto: l’errore d’aver lasciato prevalere per comodità, quieto vivere, ignavia intellettuale, gli umori della piazza accademica e della corporazione teologica del tempo e non aver dato credito all’intuizione dei migliori suoi ingegni (prevalentemente gesuiti) sulla giustezza delle tesi galileiane. Ma non indugia a solleticare il pathos antiautoritario che la storia di Galileo è solita suscitare. Esorta piuttosto a riflettere sulla difficoltà degli uomini d’ogni tempo ad accettare cambi radicali di mentalità, tanto più quando da rimuovere è l’intera plurisecolare visione del mondo di un certo signore greco chiamato Aristotele a sua volta raccomandato da un certo teologo di Aquino di nome Tommaso; e per di più quando a promuovere il ribaltone è un non laureato dalla personalità non integerrima (Paolini cita il cannocchiale “fregato” agli olandesi, il rapporto non proprio corretto con Keplero, il carattere ruvido, da pisano). «La situazione che si creò allora – spiega Paolini – è come se oggi un prof di applicazioni tecniche andasse a fare le pulci al prof di latino. Apriti cielo!». E infatti. Ma proprio lì, in quel grembiule da meccanico indossato in scena, sta il fascino del Galileo paoliniano; un geniale uomo del fare cui capita di entrare in conflitto con gli strati pensosi della società e che non esita a dar loro battaglia, usando anche sfottò e sotterfugi. Si sa, la storia ha i suoi tornanti e ben presto arrivò quello pro-Galileo, che dura tuttora. Paolini però con questo suo spettacolo ne registra e preannuncia uno nuovo e attualissimo di tornante, la crisi di legittimità di certo scientismo moderno che a Galilei si appoggia spudoratamente, la perdita del legame scienza-uomo (che resta pur sempre il suo facitore) e il risorgere parallelo della magia, dei credi raffazzonati e rassicuranti per le masse. «Galileo – dice Paolini – è usato come simbolo della scienza libera contro la fede integralista, ma in realtà è uno che per campare fa anche oroscopi, che si basano sulle tolemaiche stelle fisse». Insomma la qualità di Itis Galileo è il rifiuto di un percorso facile e predeterminato per inoltrarsi su territori impervi, sia dal punto di vista dei pregiudizi dominanti sia di quello più schiettamente teatrale.
Chi va per ascoltare l’ennesima intemerata anticlericale resta deluso e a maggior ragione si resta avvinghiati alle collaudate doti affabulatorie dell’attore veneto che introduce alla complessità della storia. Se il ministro della Pubblica Istruzione in un soprassalto di autoironia sorvolasse sull’inevitabile battuta, che Paolini non si lascia sfuggire, riguardo all’ormai famoso tunnel per neutrini che collega lo svizzero Cern ai laboratori atomici abruzzesi, gli consiglieremmo di andarsi a vedere Itis Galileo e di tenerne conto quando si parla di licei innanzitutto, così, tanto per fare un bagno di umiltà e prendere atto che i fatti della realtà sono sempre molto più istruttivi di principi altisonanti (peraltro pure sbagliati a volte). È ormai tempo che le intelligenze del futuro siano nutrite con cibo adatto; Paolini lo fornisce dall’inizio alla fine dello spettacolo che si chiude con un inquietante Galileo-Paolini a cavallo di una bomba-pendolo sulle note rock di Roll over Beethoven.