La pergola, Renoir (1876)

Brera incontra il Puškin

Da Mosca a Milano alcuni dei più bei quadri dell'impressionismo francese. Una mostra che in diciassette tele racconta due grandi passioni inscindibili: degli artisti per la luce e di due collezionisti per l'arte dei "Réfusées"
Marina Mojana

Sono soltanto 17 quadri, ma uno è più bello dell’atro: tre Cézanne, due Monet, due Gauguin, due Picasso, un Van Gogh, un Sisley, un Pisarro, un Rousseau, un Raffaelli, un Derain e due strepitosi capolavori di Renoir e di Matisse, che aprono e chiudono la mostra Brera Incontra il Puškin: Collezionismo russo tra Renoir e Matisse.
Provengono tutti dal Museo Puškin di Mosca, dove confluirono negli anni Venti del secolo scorso, in parte per donazione e in parte per confisca. I loro proprietari, invece, magnati del tessile e collezionisti di raffinata cultura, presero la strada dell’esilio: Sergej Šcukin finì i suoi giorni a Parigi, dove morì nel 1936 a 82 anni; il più giovane Ivan Morozov si spense nel 1921, appena cinquantenne, a Karlovy Vary nell’attuale Repubblica Ceca.
La mostra, dunque, è il racconto di una doppia passione per la pittura, quella degli artisti ossessionati dalla luce, dal motivo, dal colore, ma anche quella dei loro collezionisti; non si può scrivere di una tralasciando gli altri.
Ad esempio La pergola (1876) di Auguste Renoir è uno dei primi capolavori dell’Impressionismo francese, preceduto in mostra soltanto da Il Carnevale al Boulevard de Capucines, dipinto tre anni prima da Monet ed entrambi acquistati a Parigi da Morozov, quando ancora in pochi scommettevano un franco su quei pittori della domenica che avevano dipinto all’aria aperta riuscendo ad esporre, trent’anni prima, soltanto nel Salon des Réfusées.
Pesci rossi (1911) di Henry Matisse, invece, viene realizzato dall’artista subito dopo un soggiorno a Mosca, ed è - tra quelle esposte - l’opera con la datazione più recente. Acquistato da Šcukin, che di Matisse possedeva ben 37 quadri, ritrae il fenomeno fisico della rifrazione delle immagini dei pesci nell’acqua, un tipo di visione per l’epoca molto innovativa, alla quale noi siamo così abituati da non notarla quasi più.
In occasione dell’Anno Italia –Russia, dunque, questi capolavori della pittura francese tra Otto e Novecento, capiti e valorizzati da due russi intuitivi e spregiudicati, sono esposti alla Pinacoteca milanese di Brera fino al 5 febbraio 2012, poi torneranno a casa per festeggiare i cento anni del Museo Statale delle Belle Arti.
Šcukin e Morozov avevano imparato a collezionare arte in famiglia e iniziarono a investire sulla pittura francese loro contemporanea allo scoccare del Novecento, in concomitanza con i loro frequenti viaggi d’affari a Parigi. Giunti in città con l’Orient Express scendevano dal treno ed erano già nelle gallerie di Druet, Durand-Ruel, Kahnweiler, Vollard; davanti ai loro occhi sfilavano tele come episodi di un film in technicolor e tornavano a Mosca senza aver visto altro. In poco meno di quindici anni divennero i mecenati più amati dagli artisti attivi nella capitale e i più vezzeggiati dai mercanti.
Ivan Morozov, ad esempio, spendeva da 200mila a 300mila franchi all’anno in quadri (circa 750.000/1.000.000 di euro di oggi) e in una decina d’anni raccolse oltre 200 opere che oggi ci raccontano l’evoluzione della pittura francese moderna. «Quando si reca da Ambroise Vollard» ricordava Matisse «Morozov dice: “Voglio vedere un bellissimo Cézanne”; Šcukin, invece, vuole vedere tutti i Cézanne in vendita e poi fa lui la sua scelta».
In mostra se ne vedono ben tre e sono tra i Cézanne più famosi: Pierrot e Arlecchino (1888) e l’Acquedotto (1900) acquistati nel 1904 da Šcukin (il primo in Russia a possedere un Cézanne) e il Ponte sulla Marna a Creteil (1888-1895), comprato da Morozov nella Galleria Vollard nel 1911. Nel suo palazzo di via Precistenka, a Mosca, c’era una stanza interamente arredata con i suoi sei Cézanne, collezionati tra il 1907 e il 1914. Poi lo scoppio della prima guerra mondiale pose fine alla sua attività collezionistica e la casa, con l’intera quadreria, fu confiscata nel 1918, andando a costituire il Secondo Museo di Pittura moderna Occidentale di Mosca. Il Primo Museo era stato quello di Šcukin, che già nel 1907 pensava di farne dono alla città. Alla vigilia del primo conflitto mondiale la sua collezione contava 50 tele di Picasso, 16 di Gauguin, 16 di Dérain, 13 di Monet e un considerevole numero di Cézanne, Degas, Marquet, Van Gogh. Nella Mosca pre-rivoluzionaria casa Šcukin era uno straordinario museo privato dell’Impressionismo, aperto al pubblico un giorno alla settimana. Venne statalizzato nel 1918.
Periferici ma non provinciali, i due collezionisti erano i rampolli di una Russia cosmopolita e colta, leggevano Lev Tolstoj in russo e Marcel Proust in francese e aprivano i loro palazzi a poeti e musicisti. Nell’abitazione di Šcukin, nel vicolo Bol’šoj Znamenskij, ad esempio, le opere erano allestite in stanze monografiche: una sala era dedicata a Monet, una a Matisse, una a Picasso, una a Gauguin. In particolare le tele del periodo tahitiano, oniriche e senza profondità, ben definite nei contorni come le icone della tradizione ortodossa, furono acquistate in modo quasi compulsivo a partire dal 1907, dopo la tragica morte del figlio e della moglie. Appese a poca distanza l’una dall’altra e su diverse file, in una sala da pranzo scura e tutta rivestita di legno, creavano un ambiente meditativo, prossimo a quella sacralità cui aspirava l’artista stesso.
La vera opera d’arte, non importa se antica, moderna o contemporanea, ha in sé il dono divino della consolazione; ci aiuta a sollevare lo sguardo, ci ritempra e riscalda; è come una scintilla di luce scoccata dal cuore di Dio.