Immenso e fragile

IN MOSTRA - RAGNAR AXELSSON
John Waters

Che cosa succede quando certe immagini riescono a raccontare il mondo «per come permane, sotto la sua superficie»? E perché un fotografo può essere il miglior testimone di quella che il Papa chiama «ecologia dell’uomo»? La risposta sta in quaranta scatti. Da vedere a Milano

Esistono fondamentalmente due generi di fotografia. Uno è generato da una macchina fotografica che cattura ciò che le sta davanti: non si tratta necessariamente di uno scorcio casuale, ma senza dubbio è una visione oggettivizzata che si pone in relazione a qualche particolare artificio umano, un realismo sociale che non suscita altra reazione che una sorta di coinvolgimento politicizzato. È il tipo più ordinario di fotografia, quello in cui ci imbattiamo ogni giorno sui giornali. Fotografie che ci raccontano qualcosa ma senza toccarci, perché la loro ragion d’essere è unicamente fornire informazione.
Poi c’è il genere di fotografia che ti interrompe, che ti trascina dentro sé, in una storia che intuisci esistere come eredità di qualcosa antecedente alle macchinazioni dell’uomo.
Va da sé che esiste una distinzione netta, una distanza netta tra le due categorie, che non appartengono ad un continuum e che possono addirittura essere definite fenomeni separati. Il primo tipo dimostra solo che nulla di fondamentale negli accordi presi è stato modificato. Il secondo mi chiama ad agire. Mi rende presente e non per qualche effetto ottico, bensì risvegliando qualcosa di più profondo dell’essere sociale in cui, per convenzione, mi riconosco, e con il quale l’altra forma di fotografia vuole comunicare.
Come è possibile definire realmente tale differenza? È una questione estetica o forse di composizione? Di tecnica o dell’istinto del fotografo a cogliere immagini sorprendenti? È forse solo esotismo? No, è qualcosa di più intimo: è la differenza che corre tra il rappresentare il mondo come l’uomo lo interpreta e il rappresentarlo come esso permane, sotto la superficie: una realtà creata che sfida ogni spiegazione che si basi su ciò che l’uomo crede di comprendere.
Una categoria di immagini ritrae lo sforzo umano di rifare il mondo, di addomesticarlo adattandolo alla propria idea di realtà. L’altra cerca di investigarlo, di percepire e registrare la natura del vero rapporto tra l’uomo e la materia, lo spazio, il tempo, e sempre - esplicitamente o meno - di osservare la stessa natura umana in tali circostanze. La prima categoria riduce ogni cosa alle apparenze, ad accordi convenuti; la seconda espone chi la guarda a un impatto scioccante, lo fa vibrare in inconsueta armonia con la verità su di sé che egli intuisce esistere prima di sé.

Il primo giorno. Una grande fotografia mostra l’uomo nel mondo come fosse il primo giorno, satireggiandone sottilmente gli sforzi per conquistarlo. Mostra l’uomo nel dissidio tra il suo investigare la realtà e il rimanerne ammirato, intimorito.
Nelle immagini di Ragnar Axelsson vediamo un uomo alle prese con animali, oggetti, cose ad un tempo familiari e strane; vediamo un uomo che osserva e attende, come presagisse l’imminenza di un evento solenne; vediamo un mondo maestoso in cui ogni cosa sembra rimandare all’uomo la meraviglia che egli prova.
In immagini vere e potenti come quelle, l’uomo è colto come è nella realtà: parte della natura e tuttavia distinto da essa. Di volta in volta egli si trova incorniciato da un mondo che egli non crea e, nuovamente, intrappolato dalle macerie dei propri sforzi nel ricrearlo. Scala una montagna per il solo fatto che esiste, avanzando verso una meta che vive unicamente nei suoi desideri più profondi. In una fotografia del genere, un animale, una montagna, un ghiacciaio diventano prove sia della natura ironica delle ambizioni umane, sia del pathos che mina tali ambizioni. Un grande fotografo sfida le descrizioni e le spiegazioni cui l’uomo è giunto, implicandone l’inadeguatezza e la piccolezza, ma allo stesso tempo si apre ad altre immense possibilità. Dimostra simultaneamente l’esiguità dell’uomo e la sua magnificenza, suggerendo la sua connessione intrinseca col mondo, ma insieme evocandone una conformazione che è antecedente all’uomo.
Il nostro mondo, favorito in questo da fotografi noncuranti, invita l’uomo a dare tutto per scontato, a partire da se stesso. Le nostre culture sono sempre più strutturate per escludere ciò che c’è di più vero. Viviamo nel mondo, ma in modo approssimativo - dando tutto per scontato, stabilendo da noi stessi ciò che possiamo comprendere ed escludendo così tutti quei fondamenti essenziali che risultano sempre più destabilizzanti. Per riuscirvi abbiamo dovuto soffocare il nostro io interiore: la capacità soggettiva di riconoscere la natura sconcertante dell’esistenza. Noi, invece, riduciamo la realtà al banale, categorizzandola, definendone gli elementi costitutivi e considerando le parole come simbolo di ciò che abbiamo loro attribuito. La realtà diventa “nostra” - analizzata logicamente, definita e conquistata. Ne facciamo esperienza, ma in modo astratto. Messaggi e concetti si sostituiscono al colpo, all’impatto dell’Essere e, coerentemente, il rapporto tra noi e il mondo diventa politica, meccanica. La realtà cessa di essere se stessa, finendo invece con l’essere prigioniera di descrizioni e immagini, ed è per questo che non ci commuove, né cattura.
Il fotografo diventa dunque non semplicemente “artista”, ma testimone cruciale di un avvenimento che succede ogni volta pur essendo genericamente interpretato come una sequenza di coincidenze casuali in ordine sparso. Un buon fotografo è chi ci permette di acquisire, attraverso il processo visivo, quello sguardo con cui il creatore dell’universo potrebbe scrutare la realtà, percependo ogni cosa come Presenza. Il buon fotografo ci “insegna” inoltre come guardare, riconsegnandoci il metodo di osservazione che rende la fede l’ausilio più naturale. La possibilità di guardare ad ogni cosa con chiarezza è anche un modo per mettere alla prova ciò che chiamiamo fede.
Nel suo recente discorso al Parlamento tedesco, Benedetto XVI ha esaminato la radice “positivista” della cultura nel mondo moderno. «La ragione positivista», ha detto il Papa in un passaggio cristallino, «che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri».
Il Papa entra più in dettaglio: «Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità».

Bunker e libertà. Ecco la più accurata formalizzazione scritta del punto a cui ciò che chiamiamo “progresso” ci ha condotti. Perseguendo l’onnipotenza, l’uomo ha perso di vista ciò che gli serve a comprendere i suoi desideri e lo protegge dalla sua stessa incapacità a soddisfarli. In altre parole, egli ha perso di vista la propria struttura, l’innata sproporzione tra ciò che l’uomo sembra volere veramente e ciò a cui i suoi sogni lo conducono. I sogni, afferma il Papa, sono cosa buona se guidano l’uomo a scoprire grandi cose sul mondo, ma il desiderio che spinge l’uomo a inseguirli è molto maggiore.
Benedetto XVI ha parlato di «ecologia dell’uomo», un modo di comprendere le basi di come, in un’epoca dominata dal pensiero positivista, potremmo ricominciare a percepire noi stessi come davvero siamo nel mondo. «Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana».
L’uomo è intrappolato nel suo bunker dalla stessa arrogante presunzione che lo ha spinto a credere che, costruendolo, avrebbe trasceso le sue assodate, “antiquate”, “irragionevoli” nozioni di un Potere più grande di lui. L’uomo era diventato troppo intelligente per Dio. Chi non riconosce un creatore non ha basi ragionevoli per comprendere la propria origine. Lungi dal diventare “più intelligenti”, noi uomini stiamo realmente limitando la nostra capacità di pensiero volendo zittire qualunque segnale possa allertarci sulla sproporzione che ci definisce. Per via di quell’autosufficienza che proclamiamo ci siamo indeboliti intellettualmente, a tal punto da essere incapaci di instaurare quelle connessioni che ci permetterebbero di proteggerci dalle nostre superbe illusioni.
Solo un testimone vero può salvarci da tali tendenze. Solo un occhio fedele e anelante alla meraviglia dell’io può porci di fronte alla vera realtà. Ecco dove l’arte entra in gioco: come testamento di ciò che giace sotto alle menzogne erette dall’uomo per dare coerenza ai suoi schemi egocentrici. Come il Papa ha affermato in Germania: «Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto». Ecco ciò che io vedo accadere nelle fotografie di Ragnar Axelsson.