Frammenti d’assoluto

L'INTERVISTA - DENTRO LA STORIA
Luca Fiore

Oltre quarant’anni di scoperte e scavi. Tra miti, divinità e templi monumentali. L’archeologo GIORGIO BUCCELLATI, fra i più noti studiosi di civiltà antiche, spiega perché il politeismo dei “suoi” mesopotamici parla alla ragione di noi moderni. E pone un’alternativa: o si «analizza» o si «accetta l’imprevedibile»

«Gli idoli delle genti sono argento e oro, / opera delle mani dell’uomo. / Hanno bocca e non parlano, / hanno occhi e non vedono (...)». Per il professor Giorgio Buccellati è dai tempi del salmista che si ha il vizio di guardare agli abitanti della Mesopotamia come fossero dei bambini: «È un atteggiamento paternalistico. Ma non abbiamo a che fare con degli stupidi. Anzi. I mesopotamici non pensavano affatto che gli dèi dovessero parlare...». Parola di archeologo. E non di uno qualunque: Buccellati è tra le personalità più stimate nella comunità scientifica che si occupa delle civiltà antiche. Dopo aver studiato a Milano, Innsbruck, New York e Chicago, dal 1968 insegna Storia dell’antico Vicino Oriente all’Ucla (University of California, Los Angeles). Da oltre quarant’anni è impegnato in scavi tra Iraq, Siria e Turchia. Non ha il physique du rôle di Indiana Jones, ma i “suoi” mesopotamici li conosce come se li avesse incontrati di persona nell’antica città di Urkesh, nel Nordest della Siria. Si immedesima nella visione del mondo di questa civiltà sorta nel 3000 a.C. nella pianura tra il Tigri e l’Eufrate, tanto da poterne difendere le ragioni. In queste settimane sta ultimando un libro sul rapporto tra la spiritualità mesopotamica e quella biblica.

Professor Buccellati, cosa ha scoperto a Urkesh?
Urkesh era la capitale di un regno hurrita. Il mito voleva fosse la dimora di Kumarbi, il padre degli dèi. Oggi appare come una collina in una fertile pianura della Siria nord-orientale. Noi abbiamo trovato i resti di un tempio monumentale con una lunga scalinata come accesso. È databile al 2400 a.C.. È presumibilmente il tempio di Kumarbi costruito dal re Tish-atal. Lo sappiamo grazie al ritrovamento di bellissimi leoni di bronzo che erano il suo simbolo regale. Il luogo più affascinante ritrovato è una larga e profonda fossa in pietra, di fianco al palazzo reale. Era il posto dove gli spiriti dell’oltretomba venivano invocati tramite un medium in grado di interpretare le loro voci. È un luogo impressionante per le dimensioni e per il significato religioso che testimonia.

Perché ha sentito il bisogno di paragonare questo tipo di religiosità con quella biblica?
Per capire meglio il mondo della Mesopotamia. Capirlo meglio significa apprezzarlo di più. Quando si parla di politeismo si tende a essere paternalisti, appunto. Ma è un errore. Lo consideriamo in modo semplicistico, pensando sia un’accozzaglia di miti bizzarri, poco credibili e poco edificanti.

Perché è un errore?
C’è una ricchezza in questo politeismo che fa da fondamento a tutto lo sviluppo successivo della religiosità. Fino alla nostra sensibilità moderna. E per “nostra” intendo anche di noi cattolici praticanti.

Non la seguo.
Siamo tutti intrisi di questa mentalità politeistica che ha come caratteristica principale la volontà di frammentare l’Assoluto. I mesopotamici interpretano questa “sfida”, dal loro punto di vista, in maniera stupenda. E anche molto efficace. Frammentare l’Assoluto significa da un lato creare gli dèi, dall’altro delineare una situazione per cui la realtà ultima è prevedibile. Frammentare vuol dire poter analizzare, controllare, distinguere.

Perché dice che questa mentalità arriva ai giorni nostri?
La frammentazione dell’Assoluto è un atteggiamento che abbiamo anche oggi: lo spezzettiamo per controllarlo. In fondo è l’obiettivo fondamentale di tutte le operazioni scientifiche. È quello che fa anche l’archeologia: controllare i frammenti. Più frammenti si hanno, meglio è. Mentre la sensibilità biblica è diversa: l’Assoluto non è frammentabile. La tradizione biblica ha la costante capacità di accettare un Assoluto che non è prevedibile. Poi questo porta con sé tutta una serie di corollari.

Quali?
Ad esempio che il Dio della Bibbia è un Dio vivo. Il che non vuol dire che gli dèi mesopotamici fossero morti. Ma nel senso che Dio è imprevedibile, ci mette sempre di fronte a sorprese. È un Dio che agisce. Gli dèi mesopotamici non agiscono, non sono persone. Si parla di antropomorfismo degli dèi, ma è un termine sbagliato. Io parlerei di icone. Ciascuno, infatti, rappresenta una funzione. C’è il dio della giustizia, il dio della sapienza...

La Bibbia dice: «Hanno la bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono...».
Ma i mesopotamici non pensavano che gli dèi parlassero. Non c’è quasi mai una comunicazione con gli dèi. Gli dèi sono soltanto delle finestre sull’Assoluto che occorre controllare. E quindi l’Assoluto non parla affatto. Mentre Yahvè non solo parla, ma crea. La creazione è il topos fondamentale della mentalità biblica. Dio crea e quindi ha sempre un’iniziativa in quello che avviene. Mentre per i mesopotamici non esiste la creazione: la storia è soltanto un’evoluzione continua. Non c’è una volontà che mette il mondo in atto e che lo mantiene. La divinità è soltanto il Fato. Il Fato come il dna, la matrice genetica dell’universo. Quello che gli umani devono fare, sempre dal punto di vista del politeismo, è di capirne tutte le regole. C’è un passo del libro di Stephen Hawking Dal big bang ai buchi neri che mi ha sempre colpito molto, dice che quando arriveremo a una scienza universale delle cose avremo capito la mente di Dio.

È il positivismo...
In realtà non significa che avremo capito la mente di Dio, ma che saremo noi la mente di Dio. È il mito del progresso, che non si basa su un agente che lo mette in moto e che lo mantiene in moto. È una realtà amorfa a cui noi diamo forma nella misura in cui la capiamo e la controlliamo. La differenza tra religiosità mesopotamica e religiosità biblica è identica a quella che c’è tra spiegazione e fede. Non tanto tra ragione e fede, tra le quali non c’è propriamente contrasto. Ma tra spiegazione e fede. Quella che comunemente viene definita “ragione” è in realtà una capacità di spiegazione: spieghiamo le cose prima frammentandole, poi mettendo le parti in relazione tra loro. Quello che invece fa la fede è di assumere che l’Assoluto ha una capacità di iniziativa che ci chiama a rispondere.

Dunque è un’alternativa valida anche oggi?
Questi due modi di concepire l’Assoluto sono gli unici modi possibili. Tertium non datur. Non ci sono altre religioni: ci sono solo il politeismo e il monoteismo. Anche l’ateismo e il buddismo, che sembrano non considerare una realtà divina, vedono l’Assoluto come una realtà che ci condiziona e che possiamo controllare. L’altra dimensione nasce solo con la Bibbia, che passa tale e quale al cristianesimo e poi viene mutuata dall’islam. La differenza strutturale tra Mesopotamia e Bibbia è un paradigma per la storia delle religioni.

Poco fa diceva che il politeismo è un rischio che corriamo anche noi cattolici: perché?
Siamo tutti immersi in questo modo di pensare. Siamo tutti politeisti. In sostanza, anche se in maniera un po’ paradossale, il politeismo è il peccato originale, quindi c’è in tutti noi. Anche noi, a volte, tendiamo a concepire la Provvidenza come un modo di organizzare bene le cose. È difficile abbandonarsi alla volontà di Dio, perché preferiamo sempre mantenere il nostro controllo sulle cose. La prevedibilità delle cose è fondamentale oggi come allora. Mentre il profetismo biblico e il modo in cui Dio manterrà le promesse fatte al popolo ebraico sono assolutamente imprevedibili. Ed è forse questo il grande dramma della figura di Gesù. Gli ebrei erano al contempo preparati e impreparati a riconoscerlo: lo attendevano, ma si aspettavano un Messia completamente diverso. Accettarlo come invece si è presentato è stato un trauma fortissimo.

Un trauma?
Sì. Pensiamo alla Madonna. Maria ha questo bambino, ma non ha la minima idea del futuro che lo attende. Le viene promesso un futuro glorioso, ma per trent’anni non succede nulla. Poi Gesù viene ucciso sulla croce. Non è per niente una storia in linea con la tradizione davidica dei grandi re. È stata una vicenda assolutamente imprevedibile. Incontrollabile. La straordinaria personalità di Maria è stata proprio questo: non ha mai avuto nessuna particolare spiegazione di quello che stava succedendo, eppure ha sempre aderito in pieno. Durante la vita di Gesù non diventa mai la regina madre del re-messia. E dopo, quando nasce la Chiesa, lei scompare; anche se doveva essere presente in vari modi, ma mai come presenza solenne. Ha lo stesso spessore delle grandi figure profetiche della Bibbia: pronte ad accettare una volontà che non si spiega, che non si riesce a spiegare, ma che dà il senso alle cose.

Ma di cose eccezionali ne sono capitate anche alla Madonna...
Certo, ma a parte gli episodi dell’infanzia raccontati nel Vangelo di Luca - penso al racconto dei pastori e dei magi -, non c’è davvero nulla di solenne. Quello che stupisce è che Maria e Giuseppe accettino la circostanza nella quale sono messi in una situazione di oscurità totale. Immagini questa ragazzina che si trova ad avere un figlio, lei che non ha mai conosciuto uomo... Immagini come deve aver segnato in modo drammatico la vita sua e del suo sposo. Ma la mentalità biblica li aveva preparati. Non in senso teologico, ma nel senso di accettazione dell’azione divina. L’imprevedibilità di Dio si era espressa innanzitutto con la creazione. La creazione è la prima esplosione, seguita dalla seconda grande esplosione che è l’incarnazione di Gesù. Maria e Giuseppe sono i testimoni di questo nuovo Big Bang. Ma a parte la concezione verginale non c’è nient’altro che li supporti. Vedere il contrasto tra questa posizione e quella dei popoli della Mesopotamia ci aiuta a capire sul piano esistenziale la nostra situazione, la nostra posizione umana di credenti.