Giovanni Pascoli.

La domanda protesa verso il sole

A cento anni dalla scomparsa del poeta romagnolo. La prematura morte del padre, la miseria, perfino il carcere. Sempre di fronte al dolore e al male della storia: la vita di un uomo che non ha mai smesso di cercare
Roberto Filippetti

Giovanni Pascoli morì il 6 aprile 1912, verso le tre del pomeriggio. Era il Sabato Santo. Per uno di quei casi che fanno pensare, il centenario della morte cade il Venerdì Santo 2012. Pascoli si è rispecchiato nel povero Cristo crocifisso del Golgota, e ha respirato il silenzio soffocante della morte di Dio. Non è stato percosso dalla letizia pasquale, all’alba del primo giorno dopo il sabato.

Il male ha fatto irruzione nella sua vita quando lui aveva dodici anni, nel 1867. Era il X agosto, come dice il titolo della lirica che racconta di quel giorno. Era la festa di san Lorenzo. Il padre Ruggero tornava verso casa, con quelle due bambole per le bambine. «L’uccisero: disse: Perdono». La madre morì di crepacuore l’anno dopo. Il ragazzino, no, non riuscì a perdonare. Crebbe devastato da questo fatto. Conobbe la miseria, l’angoscia, la ribellione, e anche, nel 1879, il carcere per motivi politici; attraversò pure la tentazione del suicidio.
Superata questa crisi, approdò provvisoriamente a un "realismo lirico" in cui la natura è percepita come madre capace di generare una convivenza semplice, amorevole e pietosa. Ma tale percezione del reale non lo poteva appagare. Già nel libro Myricae, del 1890, trapela la nostalgia di una fede che dia luce al cuore dell'uomo. La tragedia del male nella storia, l'esperienza del dolore, l'ineluttabilità della morte, la struggente domanda di un senso ultimo: questi alcuni dei nuclei tematici dei successivi grandi libri di Pascoli: Primi e Nuovi poemetti, Canti di Castelvecchio e Poemi conviviali.

S’intitola La buona novella, in Oriente una delle sue liriche più "alte". È in terzine dantesche, scandita sinfonicamente in quattro movimenti, e posta in conclusione dei Poemi conviviali. I primi due movimenti celano in filigrana il leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: anche qui le grandi domande, in dialogo con la luna e con la greggia; anche qui i «pastori …ch’erano erranti». Due pastori i cui nomi Pascoli va ad attingere nella genealogia di Gesù (Lc 3): Addì e Maath. Nel cuore della Notte Santa un angelo reca loro la buona novella: «"Gioia con voi! Scese / Dio sulla terra". Ed a ciascuno il cuore / sobbalzò». Allora muovono, giungono a Betlemme e vedono quella giovane madre che «lagrime sorridea sopra il suo nato». Le chiedono se è lui «quei che non muore». E lei: «Il figlio mio / morrà… in una croce». Chiedono se è Dio. «Rispose all’uomo l’universo: "È quello!”». Tutto il reale converge (meglio: uni-verge) sul bambino Gesù. Et incarnatus est.

Ne La pecorella smarrita un frate alza lo sguardo verso il firmamento stellato. È la notte di Natale. «Quella immensa polvere di luce» che splende in cielo lo fa sentire un niente. «E il dubbio entrò nel cuore tristo e pio. / "Chi sei tu, Terra, perché in te si sveli / tutto il mistero, e vi s'incarni Dio?… / un astro senza più luce, morto: / foglia secca d'un gruppo cui trastulla / il vento eterno in mezzo all'infinito: / scheggia, grano favilla, atomo, nulla"». Dio buon pastore è sceso proprio sulla terra perché è questa la pecorella smarrita, «sola, del santo monte, ove s'uccida, / dove sia l'odio, dove sia la guerra». Gli altri astri sono come le novantanove pecorelle: tutti al sicuro nell'ovile del cielo, «persino ignari, colassù, del male». Non così il nostro pianeta: «E Dio scendea la cerula pendice / cercando in fondo dell'abisso astrale / la Terra, sola rea, sola infelice». E la memoria torna a quel “"pianto di stelle" con cui, alla fine del X agosto, il Cielo (con la maiuscola) inonda «quest'atomo opaco del Male».
La pecorella smarrita nel libro dei Nuovi poemetti precede La vertigine, lirica in cui l’autocoscienza della propria infima piccolezza culmina nella domanda del Destino ultimo; ovvero l’io spera (e si noti la rima) d’incontrare Dio: «Sperar… che cosa? / La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io, / io te, di nebulosa in nebulosa, / di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!».

C’è infine una lirica straordinaria, in cui si dispiega tanta parte dell’ornitologia simbolica pascoliana: Il fringuello cieco. Il poeta si rispecchia in questo uccellino che un tempo volava e cantava, lieto per il Sole in cielo e il nido degli affetti in terra; ma ben presto irruppero i lutti e ne fu accecato. Sorgerà ancora il Sole? Ovvero: tutto questo male troverà un senso? La cornacchia gracchia il proprio scetticismo, l’assiuolo il proprio nichilismo cupo, l’usignolo il malinconico addio. Ma l’umile allodola sale altissima, vede il Sole e scende ad annunciare: «C’è, c’è, lode a Dio!” (e allodola, ad-laudula, significa proprio: colei che canta le lodi di Dio). Il merlo e l’usignolo trovano che lei sia un testimone affidabile, così da poter dire il primo: «Io lo vedo»; e l’altro: «Anch’io».
Ma il fringuello-Pascoli, che aveva preteso di vedere coi propri occhi come san Tommaso («finché non vedo non credo») resta solo con la conclusiva domanda protesa verso il sole.


Il fringuello cieco
(Canti di Castelvecchio)

Finch… finché nel cielo volai,
finch… finch’ebbi il nido sul moro,
c’era un lume lassù, in ma’ mai,
un gran lume di fuoco e d’oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo…

Il sole!… Ogni alba nella macchia,
ogni mattina per il brolo,
- Ci sarà? - chiedea la cornacchia;
- Non c’è più! - gemea l’assiuolo;
e cantava già l’usignolo:
- Addio, addio dio dio dio dio… -
Ma la lodola su dal grano
saliva a vedere ove fosse.
Lo vedeva lontan lontano
con le belle nuvole rosse.
E, scesa al solco donde mosse,
trillava: - C’è, c’è, lode a Dio! –

“Finch… finché non vedo, non credo”
però dicevo a quando a quando.
Il merlo fischiava - Io lo vedo -;
l’usignolo zittìa spiando.
Poi cantava gracile e blando:
- Anch’io anch’io chio chio chio chio… -

Ma il dì ch’io persi cieli e nidi,
ahimè che fu vero, e s’è spento!
Sentii gli occhi pungermi, e vidi
che s’annerava lento lento.
Ed ora perciò mi risento:
- O sol sol sol sol… sole mio? -