Una scena dello spettacolo.

La bellezza, dal cucchiaio alla città

A colloquio con Manolo De Giorgi, coautore di uno spettacolo che porta in scena al Piccolo la scuola dei designer milanesi. Per raccontare il «mondo aperto della ricostruzione, tra cultura classica e politecnica, artigianato brianzolo e industria»
Lorenzo Margiotta

I fratelli Castiglioni, Vico Magistretti, Roberto Menghi, Ettore Sottsass, Vittoriano Viganò, Marco Zanuso. Sono questi i personaggi che riprendono corpo, nello “spazio rituale del teatro”, in Mani Grandi, senza fine di Laura Curino e Manolo De Giorgi, in scena al Piccolo Teatro fino al 24 aprile. Un grande monologo, raccontato sopra un’impalcatura – metafora del vorticoso ricostruire del dopoguerra – su cui vengono proiettati rari filmati d’epoca, «voci, teste e mani eccezionali» di una stagione che ha cambiato la storia del nostro Paese.

È uno spettacolo che mette in scena la vicenda che sta dietro il successo del design italiano tra il 1945 e la fine degli anni Settanta – ci racconta De Giorgi – e che si rivolge non solo agli addetti ai lavori ma al grande pubblico, affrontando un tema civile, un tema milanese che riguarda tutti. «Abbiamo voluto utilizzare per una volta un mezzo di comunicazione un po’ diverso da quelli generalmente usati dal design».

Si può dire che i personaggi che voi mettete in scena hanno costituito, seppur forse senza la volontà di farlo, una vera e propria “scuola”, che ha permesso a Milano di diventare un punto di riferimento internazionale in questo campo?

Sì. Una cosa che vale per tutte le figure che abbiamo raccontato, e che vale anche oggi, è che non si fa il design da soli. Quello che di solito il cattivo giornalismo, quando parla di design, chiede sempre - quali sono i designer, le star che cambieranno le cose - è una domanda sbagliata. Nessuno cambia niente se lavora da solo. L’idea che ci siano dei geni isolati che possano cambiare le cose non esiste. Si era allora in una situazione in cui tutti rischiavano nella stessa misura, i progettisti come gli imprenditori.

Era un mondo culturalmente molto aperto, trasversale, in cui gli architetti parlavano con i filosofi, con gli scrittori, con i registi. Un mondo tutt’altro che settoriale.
Pur essendo un mondo abbastanza piccolo, c’era una grande trasmissione di sapere e di esperienze, e questa è stata la cosa forse più affascinante di Milano per 20 o 30 anni. Una grande libertà, che è la libertà che viene dalla cultura. Quella per cui non ci sono settori prestabiliti.

Da dove proveniva questo atteggiamento?
Dalla cultura classica, cosa che accomunava tutti questi personaggi. Una cultura classica e poi naturalmente una cultura politecnica. Le due cose messe insieme producevano un effetto straordinario. I loro studi erano il luogo dove si metteva insieme tutto questo: cultura politecnica e liceo classico, ma anche artigianato brianzolo e grafica svizzera.

Una cultura del progetto che anche oggi è insegnata e considerata il valore più importante della scuola milanese di design e di architettura. In che cosa è consistita e che cosa ne è rimasto?
Io credo che la cosa di fondo molto importante sia che il design in quegli anni non si insegnava, ma veniva fuori quasi per automatismo dalla cultura dell’architettura. Il fatto di contestualizzare subito l’oggetto nell’ambiente è una caratteristica di queste persone e secondo me dovrebbe esserlo sempre. È stato poi il modello progettuale americano, tutto sommato più povero, quello di pensare che il design si possa insegnare e l’oggetto si possa progettare all’infuori di una specie di conchiglia ambientale che invece lo mette in relazione con tutto, come è tipico dell’architettura. Un principio è stato poi riassunto nello slogan “dal cucchiaio alla città” di Ernesto Rogers (grande maestro della scuola milanese di architettura e direttore di “Domus” e “Casabella”, ndr), che afferma una comunanza di metodo progettuale tra architettura e design, tra oggetto d’uso ed edifici.

C’è un’idea che questi architetti riescono a comunicare e a fare entrare nella cultura del tempo, e via via tramandare fino a noi, e cioè che la bellezza meriti un posto dentro la vita quotidiana, che possa in qualche modo anche cambiarla, migliorarla. Le case degli italiani cominciano ad animarsi di oggetti straordinari che prima non c’erano e che a un certo punto qualcuno progetta e costruisce. Cambia l’idea di abitare. Il design introduce questa idea che la bellezza sia per tutti.
Avevano la convinzione che costruire oggetti belli avesse un valore sociale. Che il design serviva ad arricchire, in un senso culturale più alto. Era un modo di ampliare la libertà delle cose, e quindi anche la libertà dei comportamenti delle persone.

Che cosa produce questo scatto che riesce a trasformare un oggetto di uso quotidiano di nessun valore in un oggetto bello?
Dal 1945 in poi matura in tutte questi maestri la consapevolezza che il razionalismo e il funzionalismo, la corrente progettuale imperante del Bauhaus tedesco, sia qualcosa ormai di insufficiente e si debba guardare ad altro. In Italia e in particolare a Milano il razionalismo viene assorbito ma allo stesso tempo superato, esaltato, portato a un punto in cui gli altri paesi non arrivano. Tra i sei personaggi quello che in maniera più forte va in questa direzione di superamento del razionalismo è proprio Sottsass, che per esempio guarda già a culture non europee, a culture esotiche.

C’è una cosa che non è cambiata rispetto ad allora ed è quel grande tessuto di imprese, quella grande capacità artigiana e insieme industriale di fare oggetti d’arredo. Basta visitare il Salone del Mobile in questi giorni per capire che un patrimonio di conoscenze pratiche, di “saper fare”, si è conservato.
La qualità del mobile, del design degli oggetti domestici, è inalterata ed è altissima. C’è un abisso nel modo in cui realizzano le cose gli italiani rispetto agli altri. Se l’Italia continuerà a fare certi prodotti con successo è solo perché ha saputo utilizzare l’artigianato nell’industria. Questi designer lo avevano capito benissimo, non hanno mai pensato che il design si potesse fare solo industrialmente. Ci sono sempre dei passaggi artigianali nella realizzazione dei loro oggetti, e sono quelli che oggi possono fare la differenza tra il design italiano e gli altri.
Però ci troviamo in un momento molto complicato in cui, esattamente come nel ’45, ci vorrebbe da parte del design lo stesso grado di rischio e di progettualità. Lo spettacolo, tra le righe, ha questa lezione: come a dire, guardate che siamo quasi come nel ’46, bisogna rischiare come hanno fatto loro.


Mani grandi, senza fine
Nascita e ascesa del design a Milano
Milano, Piccolo Teatro Studio, dal 17 al 24 aprile 2012
Regia e interpretazione: Laura Curino
Scenografia e immagini: Manolo De Giorgi