Non chinare gli occhi mai

CULTURA - IL POETA DEL PRESENTE
Giuseppe Frangi

A novant’anni dalla nascita, alcuni ragazzi (di oggi) si confrontano con parole e opere di PIER PAOLO PASOLINI. La sua «umanità ingombrante», che non censura. Il rischio di un Dio che «m’annoi». E quello «sguardo rivelatore», capace di ciò che lui ha sempre desiderato: strappare i giovani da un potere senza volto

C’è un filo rosso che lega l’inizio della storia di Pier Paolo Pasolini e la sua fine. Nel 1943, quando era ancora in Friuli, nella sua Casarsa, aveva aperto quella che lui aveva ribattezzato “una scuoletta” per accogliere e fare lezione ai ragazzi che, causa guerra, non potevano frequentare gli istituti di Udine o Pordenone. Quelli della “scuoletta” di Versuta erano anni felici; molto diversi dagli ultimi anni della sua vita, i primi anni Settanta, schiacciati dall’angoscia e dalla percezione drammatica dell’omologazione che stava cambiando i connotati del popolo italiano («Siamo tutti in pericolo», era stato il titolo dell’ultima sua intervista). Eppure anche in quelle circostanze Pasolini venne comunque investito da quello stesso impeto che lo aveva mosso trent’anni prima: iniziò sul settimanale Il Mondo una rubrica intitolata “La pedagogia”. Nessuna teoria: la rubrica era concepita come una lettera aperta a un immaginario ragazzo napoletano ribattezzato Gennariello, per cercare di guidarlo fuori dalle trappole della società omologata.

Finta liberazione. Pochi intellettuali hanno avuto un’attenzione tanto acuta e costante per i giovani, come Pasolini. I giovani sono sempre al centro, nelle sue poesie, nei suoi film, nei suoi romanzi. E attorno alla questione giovanile ruotano buona parte dei celebri interventi pubblicati sul Corriere della Sera tra 1973 e 1975 (raccolti in un libro straordinario che è Scritti corsari). Il primo di quegli interventi era stata ad esempio una spiazzante requisitoria contro la moda di portare i “capelli lunghi”: lui intellettuale che veniva dalla sinistra denunciava la “finta liberazione” del 1968 e della contestazione.
Ma il Pasolini che parlava tanto dei giovani e ai giovani dei suoi anni, cosa dice ai giovani del 2012? Daniela Iuppa ha 25 anni. È dottoranda alla Facoltà di Lettere di Roma Tor Vergata, e ha avuto il suo primo contatto con la figura di Pasolini grazie al suo prof di Filosofia del liceo. Un ricordo che è rimasto ben inciso, nonostante dell’autore non sapesse altro che quelle cose sentite. Racconta: «Il prof aveva citato alcuni versi, che mi sono rimasti nella testa, tanto che alcuni li ricordo ancora a memoria. Ma la cosa che approfondendone poi la conoscenza mi ha colpito di più è stato lo “sguardo rivelatore” di Pasolini. L’acume con cui ha colto quell’annientamento dell’umano come grande rischio del nostro tempo. Lui svela un potere subdolo, senza volto, più terribile e temibile delle dittature. Usa parole che non hanno possibilità di fraintendimenti: per questo sono state decisive per il mio modo di sentire la vita». Nel senso che hai ritenuto realistico il suo giudizio? Daniela: «È un giudizio in cui sento vibrare il contraccolpo della realtà. E su cui lui si mette in gioco in prima persona. C’è una lettera scritta a un sacerdote, don Andrea Carraio, in cui Pasolini spiega questa sua posizione: “Io mi sono posto come principio umano e artistico l’obbligo di non chinare gli occhi di fronte alla vita mai, neanche di fronte alle sue miserie e alle sue impudicizie”».
«Pasolini mi sembra un intellettuale che non censura niente né della realtà che ha di fronte, né della sua umanità così ingombrante». Ilaria Bersanelli frequenta l’ultimo anno dell’Accademia di Brera a Milano. Di Pasolini ha visto qualche film e letto poche cose. Per l’occasione ha preso in mano Scritti corsari, che raccoglie gran parte degli interventi sul Corriere. Uno in particolare l’ha colpita, ed è proprio l’articolo “Contro i capelli lunghi”. «È molto spiazzante e duro contro i giovani che si lasciano travolgere da mode indotte dal potere. Ma quando l’ho letto mi sono detta che ci sarebbe davvero bisogno di uomini in grado di leggere così acutamente la situazione dei giovani». C’è una frase che Ilaria ha sottolineato con decisione sulle pagine del libro, ed è questa: «Ora, solo attraverso tale rapporto dialettico - sia pur drammatico ed estremizzato - essi avrebbero potuto avere reale coscienza storica di sé, e andare avanti, “superare” i padri». Perché ti ha colpito? «Perché trovo che quello che più manca oggi in noi ragazzi è la consapevolezza e la lucidità di volere un rapporto serrato con i padri. Ci si concepisce ultimamente come soli al mondo, guardiamo a tutte le nostre ansie come problemi psicologici. Invece quanto è rivoluzionario e liberante potersi rapportare a persone che, in questo contesto di isolamento, riaprono il problema dalla sua origine, senza fermarsi a delle considerazioni! Pasolini con i suoi scritti chiama ad un rapporto così».

«Mo’ sto bene!». C’è anche un’altra porta d’ingresso per farsi conquistare da Pasolini, ed è quella dello stupore. Quello che s’accende guardando l’ultima sequenza di Accattone, quando il giovane protagonista morendo dice quella battuta stupenda: «Aaah... Mo’ sto bene!» (Pasolini citando Dante nei titoli di coda rivela che è un presentimento del Paradiso). Marco Pedersini, 29 anni, laureato in Lettere, oggi giornalista, cita un altro finale, quello del cortometraggio Che cosa sono le nuvole?, con Totò e Ninetto Davoli. Nell’ultima sequenza guardando il cielo sopra di loro con le nuvole mosse dal vento, Totò esclama: «Straziante, meravigliosa bellezza del creato». Dice Marco: «Pasolini sa alimentare il mio stupore e sa richiamarmi a tutta la portata del mio dramma, quel dramma che ciascuno di noi tende colpevolmente a calmierare. Questo me lo rende compagno fedele, nonostante non sia in grado di offrire alcun orizzonte possibile a questo dramma». Nel nostro viaggio scopriamo che anche Pasolini per far breccia tra i più giovani deve passare dal web. Che cosa sono le nuvole? (in varie versioni) in effetti spopola su Youtube. Anche Francesca Mortaro, 24 anni, quinto anno di Lettere, lo ha intercettato e ne è rimasta commossa: «Sì, mi ha commosso. Quella frase finale per me significa che dentro la bellezza del creato l’uomo percepisce uno strazio e una tristezza perché sa che quello che ha davanti è destinato a finire. Ci continuo a pensare: è incredibile che uno possa dire a me, meglio di come lo direi a me stessa, una cosa del genere».

Il dolore del mondo. Francesca non le dà un nome, ma questa è la forza della poesia. E a proposito di poesia, in Università Cattolica c’è un gruppo di studenti di Lettere che una volta alla settimana si trova a leggere L’usignolo della Chiesa Cattolica, una delle raccolte più famose di Pasolini, scritta negli anni 50. Con loro c’è Giacomo Vagni, 25 anni, oggi dottorando. «Ci troviamo anche semplicemente per capire. Per un ragazzo oggi entrare nel linguaggio della poesia non è così scontato». Un verso che vi ha colpiti? «Questo: “Di Lui non fate che m’annoi prima di temerLo: difendeteLo // in me, non negli innocenti Suoi”. È un verso che evidenzia un rapporto drammatico, ma vero con Cristo. È come se Pasolini ci dicesse che ciò che uccide la fede non è il pericolo di un’eresia, ma la polvere che vi si deposita sopra. Per lo scrittore friulano il rischio è un Dio che “annoi”. È un’affermazione che scuote, anche perché Pasolini non parla per categorie assolute, ma parla pensando innanzitutto a se stesso, al proprio rapporto con Cristo. Si rapporta con il proprio bisogno. In lui tutto diventa sempre partecipazione quasi fisica e in qualche modo totalizzante. Questo è una provocazione forte per noi, ed è una modalità di rapporto con il mondo di cui - mi sembra - si possa avvertire la nostalgia». La poesia di Pasolini non è mai ambigua o ermetica. È sempre radicalmente sincera. «Quando leggo i suoi versi» confessa Daniela, «è come se mi restasse addosso una patina insieme di dolcezza e di dolore. Nella sua più o meno cosciente volontà, insegna a scorgere il travaglio del mondo: il soffrire, di un ragazzetto o di un industriale borghese, dentro il grande dolore del mondo, che piange, come dice lui “anche per farsi migliore”».
Fare migliore il mondo: anche Pasolini era mosso da un desiderio di incidere nella realtà sociale e politica. «Spesso le soluzioni che mette in campo suonano un po’ anacronistiche», riprende Giacomo Vagni. «Ma la sua testimonianza più interessante è quella che dimostra come sia possibile (e desiderabile) che la riflessione su di sé, anche sugli aspetti più intimi della propria persona, conviva fecondamente con un interesse “politico” in senso ampio. È così che la riflessione sull’attualità può riprendere lo spessore, la dignità e la drammaticità che oggi spesso mancano all’“antipolitica” di comodo che, poco o tanto, tocca la maggior parte di noi giovani».
Giocare il proprio io in ogni giudizio espresso e in ogni parola messa su carta. Proporsi sempre con una sincerità a volte anche perturbante. Forse è per questo che quando si propone una pagina di Pasolini ad un giovane di oggi, si apre sempre una breccia. Non è un poeta del passato, è un poeta del presente: «Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto» (dalle Ceneri di Gramsci).