Bisogno di tutto

CULTURA - MICHELA MARZANO
Alessandra Stoppa

«Credevo di essere più forte della mia fame». Ma quando ci si dimentica di sé, «il mondo diventa piccolo». Fino a non poter più vivere. La filosofa e scrittrice MICHELA?MARZANO si racconta. L’anoressia, il tentato suicidio, la scoperta che il vuoto «è il segno della nostra umanità». E che il pensiero «nasce solo da ciò che sconvolge me»

«Perché ti vesti sempre di nero?». La zia è venuta a trovarmi. Ed è la prima cosa che mi dice quando le vado incontro sul pianerottolo di casa. «Perché sono in lutto». «Come in lutto, tesoro? Chi è morto?». «Io, zia. Non te ne sei ancora accorta?».
Era una ragazzina allora. Molto obbediente. «Troppo», dice. Brava in tutto, ma mai abbastanza per il padre. E sempre con qualcosa che la «mangiava dentro», mentre lei smetteva di mangiare e iniziava la sua corsa ad essere impeccabile, a diventare una giovane di talento, una da lode alla Normale di Pisa, con una tesi su Essere e dover essere che ora sembra un grido e la toga a coprire un corpo di trentacinque chili.
Oggi Michela Marzano è ordinaria di Filosofia morale e direttrice del Dipartimento di Scienze sociali all’Université Paris Descartes: a quarantadue anni è un’autorità nell’ambiente culturale francese. Scrittrice, e collaboratrice di Repubblica, da cui interviene spesso su coppie di fatto, difesa delle donne, eutanasia... Con le sue posizioni, liberal e progressiste, non sei quasi mai d’accordo. Ma a spiazzarti è sentirla parlare di sé. O leggere il suo blog. Non ha titolo, porta solo il suo nome. E una dedica: Se non avessi attraversato le tenebre, forse non sarei diventata la persona che sono oggi. Forse non avrei capito che la filosofia è soprattutto un modo per raccontare la finitezza e la gioia.
Capisci un po’ di più perché dopo tanti libri sulla filosofia del corpo, l’etica dell’autonomia o la fecondazione eterologa, abbia scelto di scriverne uno su di sé. E capisci perché ama così Hannah Arendt. La “filosofia dell’evento”. Un pensiero incarnato, che scaturisce «sempre e solo» da qualcosa che accade. «La mia filosofia nasce da ciò che ha sconvolto me», dice. Così ha preso il suo evento, e gli ha dedicato l’ultimo libro. Volevo essere una farfalla parla della sua anoressia. Ma non è un libro sull’anoressia. Racconta la vita che diventa tormento quando si fa di tutto per ignorare la mancanza che siamo, per negare «il vuoto che si ha dentro».
Voler essere più forti della propria fame. Non è una questione di cibo, «il cibo è solo un sintomo. È pensare che basta volere per potere. Pensare che il bisogno non conta, ma conta solo la volontà. Il mondo così diventa piccolo», dice: «E io non potevo più vivere».

Lei scrive che «imparare a vivere significa accettare l’attesa». E aggiunge: «Integrare l’idea che il vuoto che portiamo dentro non potrà mai essere del tutto colmato. Che ci sarà sempre qualcosa che ci manca». Che cosa vuol dire «imparare» questo?
Ben prima dell’anoressia, che è solo un meccanismo, c’è altro: il rifiuto di quello che si è perché si pensa che si dovrebbe essere. Soprattutto, che si dovrebbero superare i propri limiti, per rispondere sistematicamente a delle aspettative, proprie o degli altri. Nel mio caso, si trattava di quelle di mio padre. Ma questo costruirsi negando come si è davvero, come se la propria fragilità non esistesse, è del resto la cifra della nostra società...

Perché?
È una società volontaristica. In cui ci sentiamo ripetere ovunque, da colleghi, famiglia, insegnanti, amici... quest’idea che si deve volere e che, se si vuole, si ottiene. È un sistema ideologico e molto contemporaneo. In quello che è successo a me è chiaro: consideravo di dover essere più forte della mia fame, perché dovevo cercare di seguire una specie di ingiunzione che diceva: “Sei più forte di qualsiasi cosa, è più forte la volontà”. Come se i bisogni non contassero. Io ho ricominciato a vivere quando mi sono accettata. Quando ho capito che quella fragilità strutturale che ci caratterizza tutti - senza eccezione - può diventare una risorsa.

In che senso “risorsa”?
È la consapevolezza che le fratture, le mancanze, tutta questa fragilità che ci portiamo dentro, vanno bene così. Perché tu vai bene così! Perché sei importante. Nella mia vita è cambiato tutto quando ho smesso di passare il tempo a costringermi, a seguire un dover essere. Capisco solo ora una frase che mi diceva da adolescente il mio prete: «Il tuo problema, Michela, è che non ti lasci andare». Lui intendeva al volere di Dio. Ma io capisco che è vero anche in termini “laici”: lasciarsi andare a quello che accade. Imparare a non cercare continuamente di... arracher, direi in francese: ottenere, tirare, prendere. Bisogna lasciarsi andare per rendersi conto che le cose accadono, arrivano. Ed è in quel momento che non si è più in guerra con se stessi.

Per “lasciarsi andare” a quello che accade bisogna fidarsi che la realtà sia più grande di ciò che si pensa.
Infatti, io mi ero «dimenticata» di me stessa e delle cose intorno.?Il cambiamento è stato «accorgermene» di nuovo. Accorgersi delle evidenze della vita è la cosa più semplice e più difficile al tempo stesso. Io dicevo sempre alla mia analista: cosa posso fare di più per stare meglio? Un giorno mi ha risposto: «Forse lei deve fare meno...». Dire «cosa posso fare di più» era ancora nel meccanismo del mio controllo su tutto. È così che ci “si dimentica”, si inizia a dimenticare che cosa si vuole davvero: è il rapporto tra quello che lo psicanalista Donald Winnicott chiama falso sé e vero sé. Il primo è quello che noi ci costruiamo per corrispondere alle aspettative. Mentre dentro di noi abbiamo desideri e speranze, abbiamo “quello che siamo” davvero, ma che non abbiamo il coraggio di essere e di dire. Innanzitutto perché non ci accettiamo per come siamo.

Che cosa l’ha aiutata ad accettarsi?
Un percorso molto lungo, vent’anni di psicanalisi. In cui ho dovuto riguardare come piano piano ero entrata in questo meccanismo in cui pensavo che tutto fosse condizionato. È un processo che ha chiesto molto tempo, perché non basta capirlo. Mio padre mi ha sempre insegnato che la vita riesce a chi s’impone a se stesso, qualunque cosa accada. Allora mi sono chiesta: perché? Non perché lui me lo abbia detto, questo fa parte della sua storia. Ma perché io gli ho creduto? Perché lo amavo tantissimo, e avevo paura di perdere il suo amore. Ma, di nuovo, perché? Probabilmente per certi fatti dell’infanzia, tra cui la perdita che si è prodotta in me quando ero molto piccola e mia madre è stata ricoverata in ospedale.

“Capire” tutto quello che è accaduto è bastato?
Non basta, perché io so che si è scatenato tutto questo, ma non saprò mai fino in fondo il perché. Perché io abbia reagito così, perché io abbia trasferito tutto su mio padre... Questo è mistero. Non posso dargli una risposta “razionale”. Ma con questo mistero bisogna fare i conti. E quando io ho iniziato a farli mi sono liberata.

Nel libro scrive:?«Che ne sanno gli altri di quello che ho dovuto fare per capire che avevo bisogno di tutto?». Poi nel blog parla del «vuoto» come «il segno della nostra umanità». Dice: «Quando si parla di vuoto, immediatamente, tutti si agitano. Perché non va bene, è pericoloso... È un “corri corri” generale. Come se lo si dovesse immediatamente colmare. Solo che non è così! Inevitabilmente, prima o poi, qualcosa ci manca...».
Niente e nessuno può colmare questo vuoto. A meno che uno non pensi che ci sia qualcosa che arriverà a riempirlo per sempre. Io ho visto che il problema è quando mi aspetto tutto da un’altra persona, mi aspetto che un altro mi ami completamente. Per chi ha fede, l’unico che ci ama esattamente come siamo è Dio. Ma quando tu hai sperimentato un amore condizionale, un «ti amo se...», come mi è accaduto nel rapporto con mio padre, da cui mi sentivo voluta nel momento in cui corrispondevo alle sue attese, allora inizi a credere profondamente che solo in quel «se» puoi essere amata, e non credi più che ci possa essere un amore incondizionato.

Crede sia impossibile quest’amore?
Nel libro non ne parlo, ma il mio rapporto con la fede è molto cambiato. Io ho avuto un’educazione cattolica, ma quando ho iniziato a stare male ero molto arrabbiata con Dio. Gli chiedevo: «Perché mi fai questo?». E mi arrabbiavo, con quel continuo silenzio. Oggi so che non era silenzio. Perché ho in mente certi momenti... Io so che Lui mi ha salvato la vita. Ma dovevo fare un percorso, dovevo attraversare le fratture, che restano, e il passato, che non passa mai. Quindi ho avuto un momento in cui mi sono veramente allontanata da Dio, perché il mio mondo era diventato molto piccolo. Se oggi mi sono riavvicinata è perché ho un rapporto con me stessa che mi permette di vedere e di sapere che quell’amore esiste.

Racconta che a 27 anni ha tentato il suicidio, quando il fidanzato l’ha lasciata, proprio per l’illusione «che un’altra persona avrebbe riempito il mio vuoto».
L’altro non è una cosa che possiamo prendere e mettere là dove fa male. L’altro è “altro”. È un’alterità assoluta. Nel 1997, avendo perso la persona che amavo, pensavo di aver perso tutto. Se io oggi perdessi Jacques, il mio compagno, continuerei a “perdere tutto”. Ma non perderei me stessa. Perché io ho un valore irriducibile.

Che cos’è questo valore?
Il fatto che la mia vita vale la pena di essere vissuta. Che la mia vita non dipende da Jacques, non dipende dal lavoro, dal ruolo... I “suicidi della crisi” di cui si parla in questo momento mi colpiscono molto. È terribile quel gesto, perché si pensa di aver perso tutto. Il fatto è che questo “perdere tutto” può succedere. Ma in realtà, anche quando si perde tutto, resta quello che io non vedevo prima: la semplice, banale evidenza che vivere è bello. Io ho dovuto vivere tutto quello che ho attraversato per accorgermene.

La sua esperienza ha cambiato anche il suo lavoro, la sua filosofia?
Completamente. Oggi sono la persona che sono perché ho attraversato quello che ho vissuto, ma soprattutto perché mi sono rimessa in discussione. Quello che mi è successo, l’«evento», è un momento di verità che cambia il modo di guardare. Ciascuno è sconvolto da un momento di verità, da qualcosa che accade. Tutto ciò che io oggi scrivo e faccio è frutto anche di questo. Poi, è cambiata anche la mia concezione del lavoro: io lo vivo molto seriamente, ma ho imparato a “lasciar spazio ad altro”, a non sacrificare tutto al ruolo, perché non vale solo ciò di cui vedo il profitto immediato. Ho iniziato a vedere gli attimi di autenticità, oltre l’apparenza. In qualche modo, è uscire da una visione utilitaristica della vita.
 
Racconta che, dopo essersi ripresa dalla sofferenza più grande, si è sposata, è andata in Francia, ha imparato la lingua, ha vinto il concorso all’Università... Ma di nuovo si è accorta che era infelice, perché «avevo tutto, ma non avevo niente».
Sì. È lì che ho iniziato la psicanalisi in francese. E ho ritrovato le parole. Ho cominciato a dare un nome al disordine che avevo. Ci ho messo tanto tempo, perché è doloroso. Ma iniziare a nominare le cose, come dice Albert Camus, porta ordine. Ci sarà sempre uno scarto tra l’esperienza e quello che si riesce a dire, per forza; ma quando lo scarto è troppo grande non si capisce più nulla, di se stessi e del mondo.

Perché il linguaggio aiuta a mettere ordine, a conoscere?
Perché quelle “evidenze” di cui parlavamo - che, appunto, non sono più così evidenti - cominciano ad emergere. Per me è stato uno spostamento progressivo: a riconoscere quello che sono io, e le cose. Per questo oggi dico che “sto bene”, non nel senso che è tutto a posto, ma nel senso che sto male come chiunque altro. Il mio vuoto c’è sempre. Ma lo sguardo è più ricco, perché mi rendo conto di cose che non vedevo. E posso guardare anche le cose che apparentemente non hanno senso.

Nel libro cita Dostoevskij: «Ama la vita più del suo senso, e anche il senso ne troverai». Poi si chiede: «Ma come si fa ad amare la vita prima di aver trovato il senso?». Oggi come si risponde?
Ora posso amare la vita anche in quei momenti in cui immediatamente non ne capisco il perché, in cui il senso sfugge. Posso farlo perché so che, aspettando, le cose vanno bene: non si rimettono a posto, ma trovano risposta. Perché la vita è aspettare. Attendere quel senso. Oggi so che un giorno, anche se non in questa vita, capirò il perché.