Una scena di <em> To The Wonder.</em>

Le due vie del cinema

Nichilismo o senso religioso. È questa l'alternativa che emerge dalla selezione dei film di quest'anno: violenza o preghiera. La prima si fa raccontare molto bene. Sulla seconda c'è ancora molto da lavorare
Maurizio Caverzan

Tra le quattro bad-girls protagoniste di Spring Breakers, il lisergico film di Harmony Corine che narra le vacanze di primavera della gioventù americana, ce n’è una che frequenta gruppi religiosi e si chiama Faith, Fede. «Bel nome», commenta il gangster con i rasta e i denti d’argento (James Franco) che ha pagato la cauzione per farle uscire di prigione dopo una notte brava. «Ma tu preghi?», le chiede. «Sì prego». Così, quando le vacanze trasgressive virano dalle parti del crimine, Fede molla tutto e se ne torna a casa. Potrebbe racchiudersi in questa scena l’intera Mostra del Cinema di Venezia appena conclusa. È come se le tante storie portate al Lido potessero sintetizzarsi in questa alternativa. Ci sono solo due strade: il nichilismo e la fede. Meglio, il nichilismo e il senso religioso. Rabbia e devozione. Violenza e preghiera. Solo che, anche al cinema, accade che la preghiera si trasformi in violenza. E che la violenza contenga un bisogno disperato di salvezza. Mai come quest’anno tanti film narrano storie di persone che cercano, che manifestano il proprio bisogno di salvezza. È un senso religioso spesso disordinato, patologico, squilibrato, quello rappresentato in molti film. Magari messo in scena per essere contestato, accusato, vilipeso.

In Bella addormentata di Marco Bellocchio, il film che ambienta negli ultimi giorni di Eluana Englaro tre storie che hanno a che fare con il fine vita, Isabelle Huppert è un’aristocratica attrice che ha smesso di recitare, assorbita dallo stato vegetativo in cui versa la giovane figlia tenuta in vita dal respiratore artificiale. Per lei la madre invoca un miracolo, ma la sua fede barocca è fatta di funzioni cupe e avemarie isteriche. Nell’episodio centrale una militante del movimento per la vita (Alba Rohrwacher) manifesta davanti alla clinica “La Quiete” di Udine. Canti, rosari, disabili esibiti con il cartello «Uccidete anche me». Suo padre, un senatore del Pdl (Toni Servillo), si rifiuta di votare la legge contro la sospensione dell’alimentazione ad Eluana preparata dal suo partito, memore di quando aveva praticato con le sue mani, in verità in modo poco plausibile, l’eutanasia sulla moglie. Alla fine, però, il personaggio di Alba Rohrwacher che s’innamora di un militante di sinistra testimoniando un cristianesimo non settario, è il più positivo e sorridente del film. Molto più controversa e respingente la devozione della protagonista di Paradise: Faith, una fanatica austriaca che bussa alle porte degli immigrati con una statua di gesso della Madonna e che davanti al crocifisso appeso in camera prega, si flagella e indossa il cilicio. Una fede che sconfina nella sessuofobia e nella xenofobia. Come si vede quando rispunta il marito musulmano e paraplegico rivendicando i suoi diritti di coniuge e lei lo rifiuta con tutte le sue forze perché il suo amore è un altro. Contrariamente al titolo, la casa si trasformerà in un inferno.
Molto più "moderno", forse troppo, il cristianesimo delle suore del convento di Pesaro Urbino viste nel breve documentario Clarisse, nel quale le monache rispondono alle domande di Liliana Cavani sulla loro vita di religiose e a quelle, insistenti, sulla parità tra i sessi nella Chiesa.

Dalla fede cristiana ai fondamentalismi, il bisogno di salvezza e di redenzione attraversa molti altri film visti al Lido. In The Master (Leone d’argento e premio ex-aequo ai due interpreti) un marine reduce dalla Seconda Guerra mondiale, nevrotico e alcolizzato (Joaquim Phoenix), cerca di ritrovare equilibrio attraverso il complesso rapporto con un carismatico santone (Philip Seymour Hoffman) che evoca il fondatore di Scientology. In quel reduce c’è l’America che esce dalla guerra e cerca di risvegliarsi, di guarire e ricominciare. La guarigione è sinonimo di salvezza e redenzione anche in Pietà del regista coreano Kim Ki-duk, quello di Primavera, Estate, Autunno, Inverno e Ferro 3. Qui è l’amore la strada suggerita. Un usuraio storpia i debitori insolventi e viene ripagato attraverso i risarcimenti dell’assicurazione preventivamente stipulata dalle sue vittime. Ma quando verrà ricolmato dall’amore dalla donna che chiede il suo perdono per averlo abbandonato in fasce non riuscirà più a essere spietato. Premiato a Venezia con il Leone d’oro, risulterà assai indigesto nei cinema per le tante scene di crudeltà.

Tutt’altra poesia in To The Wonder di Terrence Malick che prosegue il viaggio alle radici della vita iniziato in The Tree of Life. Dalla spiaggia di Mont Saint-Michel sulla quale incombe l’abbazia chiamata “Meraviglia dell’Occidente”, una coppia di giovani amanti (Olga Kurilenko e Ben Affleck) sperimenta il desiderio dell’amore eterno. Ma una volta trasferiti nella casa di lui, in Oklahoma, la “meraviglia” svanisce. Parallelamente, un sacerdote cattolico (Javier Bardem) chiede a Dio di farsi riconoscere dal cuore più che dai dogmi. Un film pieno di stupore, con immagini e testi poetici e dialoghi rarefatti trasformati in riflessioni a voce alta dei protagonisti. È la bellezza a salvarci come una grazia che ci investe, sembra voler dire Malick nella pellicola forse più compiuta di tutta la Mostra e che, guarda caso, è meno piaciuta alla critica. Pazienza. Al di là dell’accoglienza di alcuni film, è come se le storie di questi registi mostrassero che, dopo il crollo delle ideologie e la rottura dell’incantesimo del capitalismo occidentale, la nostra società è arrivata al dunque. Ci sono solo due strade possibili... Il nichilismo lo conoscono bene e lo sanno raccontare. Purtroppo, non si può dire lo stesso del senso religioso.