La copertina di <em>Babel</em>.

Mettete la realtà nelle vostre canzoni

Il secondo album della band londinese è già in vetta alle classifiche. Fanno «musica vera, suonata e sudata» in un panorama piatto. Che sta lasciando il segno. Ecco un agile tragitto nel fenomeno Mumford dentro i loro nuovi brani
Walter Muto

Quando comincia ad esserci un po’ di gente che ama alla follia una band ed altra gente che non ci trova niente di speciale, o addirittura la odia, questo significa che quella band un segno di qualche tipo lo sta lasciando. E il segno dei Mumford & Sons è molto recente, in senso temporale, perchè prima di cinque anni fa non esistevano. Un po’ come avvenne (mi si passi il paragone) a Seattle all’inizio degli anni ’90, così pure nella West London della metà degli anni 2000 c’era una scena musicale piuttosto vivace. Lì nacque il cosiddetto Grunge, qui si alimentò un cospicuo e ferrigno folk revival, che vedeva come altri esponenti di rilievo, fra gli altri, Laura Marling, Johnny Flynn e Noah and the Whale. E come a Seattle, anche qui si viene a creare una vera e propria community: gli uni suonano sui dischi degli altri, collaborano, a volte nascono storie d’amore, si suona insieme ai concerti.

È da questo contesto che nascono i Mumford & Sons che, come già raccontato qui, dopo il primo lavoro Sigh no more del 2007 acquistano una inaspettata e rapidissima popolarità, non solo nel Regno Unito, ma anche in Europa e nel nuovo continente. Siamo ora all’uscita del loro secondo lavoro, Babel.
La loro musica è un folk-rock che alterna momenti di combattimento sonoro ad atmosfere più tranquille e riflessive. I testi, anche in questo secondo lavoro, non mascherano affatto le radici cristiane della band, anche se loro non vogliono essere identificati come christian music. Possiamo capirli: di fatto lo sono, ma non vogliono essere mescolati e confusi con un genere che trasuda melassa e sentimentalismo. Qui il tentativo è mettere la realtà - anche ruvida, spigolosa e con qualche parolaccia - dentro le canzoni, che scrivono, arrangiano e suonano insieme. Il loro look è quello che userebbero normalmente andando in giro per la loro città: una trasandatezza non curata che denota appunto il non curarsene affatto.

Bene: tutta questa immediatezza dove ha portato? Ad essere primi in classifica in Gran Bretagna a meno di una settimana dall’uscita e ad avviarsi ad esserlo negli Stati Uniti, con circa mezzo milione di copie già vendute. È solo moda? È solo una immensa tempesta ormonale e caratteriale di un nugolo piuttosto esteso di adolescenti? Io credo ci sia qualcosa di più. Si genera come un barlume di riconoscimento. Pensiamo agli americani: le metafore da antico testamento, il bisogno di purificazione, il senso del destino che permeano i testi della band fanno sempre una gran presa (ricordate il successo del film – e della colonna sonora – Fratello dove sei?). La musica che emerge dal CD, e ancora di più dalle performance dal vivo, è musica vera, suonata, sudata. Vedere sul palco una canottiera da pizzaiolo o una camicia a quadri fa pensare che lì sopra ci potrei essere anche io e mi fa avvicinare ed appassionare a quello che la canzone mi sta dicendo. Parte del pubblico si è stancata della feccia super-prodotta e senza significato che è il 90% della musica attuale. Nel successo che i Mumford stanno avendo c’è anche, forse soprattutto, questa componente.

Allora a questo punto ascoltiamo il disco. La ricetta è grossomodo la stessa:
ritmi di polka sfrenata o di country-waltz sostengono canzoni che ci si immagina già suonate dal vivo con la gente che salta davanti. La voce gravelly, pietrosa di Marcus Mumford canta sulla base di chitarra-basso-banjo-pianoforte, talvolta arricchita da archi o fiati, con una timida comparsa in un paio di brani di una chitarra distorta. I pieni e vuoti, piano e forte all’interno delle canzoni, la voce all’ottava bassa e poi all’ottava alta, i cori degli altri tre membri tendono ad evidenziare che la cosa più importante è quello che si racconta. Così pure una serie di spezzature, di irregolarità ritmiche che consciamente o inconsciamente non lasciano tranquilli e spostano continuamente la scansione ritmica, sempre a denotare che chi comanda è la parola.
Non voglio analizzare tutti i pezzi: mi sono molto piaciute Below my feet (che peraltro eseguivano già dal vivo da un certo tempo) con le raffinate armonie vocali; l’aggressività che monta piano piano e poi torna da dove è venuta in Broken crown; la bella dichiarazione di vita insieme contenuta in Ghosts that we knew. Ed anche il singolo, già in circolazione da un po’ I will wait, specialmente la riuscitissima frase You forgive and I won’t forget. Quando si viene perdonati non lo si dimentica. O anche, infine, il minimalismo dei due minuti di Reminder, affidata solo a voce e chitarra acustica, nella sua richiesta in rima di a constant reminder/ of where I can find her, un richiamo, un ricordo costante di dove posso trovare la mia amata.
Occorre più tempo per tradurre e comprendere bene i testi, che magari saranno oggetto di un approfondimento futuro. Mi colpisce che siano tutti pensati in un rapporto, dedicati ad un "tu". E suonano veri, non artefatti. La dichiarazione finale in Not with haste parla abbastanza chiaramente: This ain’t no sham – I am what I am. Non è una farsa: sono quello che sono.

Un nota bene finale: non è un obbligo ascoltare i Mumford & Sons. Ma se li si ascolta, si tengano presenti alcune semplici indicazioni. Si tratta di canzoni, e con quel termine si intende una unione di musica e parole. Senza ascoltare le parole e tentare di immedesimarsi con il testo, queste canzoni perdono molto del loro significato. E, detto questo, musicalmente possono sempre piacere o non piacere. Ma per scoprirlo bisogna tentare di andare al fondo, e non fermarsi in superficie.

Mumford & Sons
Babel
Island - 2012