La copertina del libro.

Firenze, un bene “Comune”

Di chi è una città? Come può rinascere? Luca Doninelli, nel suo ultimo libro sul capoluogo toscano, parla della «forza trainante della bellezza» e prova a ripensare il ruolo dell'autorità pubblica. Pubblichiamo una parte della postfazione
Andrea Simoncini*

In Shakespeare il folle, il fool, è quello che dice la verità. (...) La pro-vocatio è quello che fa venir fuori la tua vera vocazione, ti sveglia dal torpore o dalla rendita comoda e costringe a «considerare la (tua) semenza».
A me pare che questo libro sia una sorta di provocatio ad populum florentinum promossa nel ventunesimo secolo.
E proseguendo nell’analogia con Shakespeare, ritengo che la provocazione, la sua verità scomoda, stia, più che nel contenuto delle proposte, nel metodo.
Proverò a riassumere la questione di metodo che sottende il libro in due grandi interrogativi e due coppie di risposte alternative; tanto comuni quanto sbagliate.
Di chi è Firenze? È mia o è dello Stato?
Di che ha bisogno Firenze? Di un “piano straordinario” o dell’assenza di piani?

Di chi è Firenze?
Ebbene l’idea oggi dominante è che i “beni” possano essere essenzialmente di due tipi: o privati o pubblici.
Insomma, o una cosa è mia (della mia ditta, della mia società, della mia associazione) e allora posso farne - tendenzialmente - quello che voglio, oppure se non è di un soggetto privato, vuol dire che è pubblica ed allora questo significa che non è mia, ma è dello Stato. (...)
Insomma, siamo cresciuti con un anello mancante: tra ciò che è mio e ciò che è dello Stato, c’è qualcosa in mezzo? (…)
Allora la prima sfida di metodo di questo libro è provare a cercare l’anello mancante. E l’anello c’è!
Tra i beni privati ed i beni pubblici ci sono i beni comuni. Visto però che oggi questa parola è divenuta equivoca, chiarirò che, secondo me, occorre parlarne al singolare: tra il mio interesse e quello dello Stato c’è il bene comune. E basterebbe andare a Siena (la cito solo per praticità, Dio mi scampi dall’attizzare vecchie rivalità) e guardare l’affresco del Buongoverno in Palazzo Civico per capire che l’origine dell’uso della parola “Comune” per indicare il governo della città, sta proprio in questo senso di bene “comune”; di corda che non lega i cittadini ma a cui tutti si afferrano per poter stare assieme (…)
C’è un bisogno? Ad esempio la cura della salute? Chi se ne fa “carico”? Chi si prende cura? Un singolo? Non potrebbe.
E allora questo vuol dire che se ne deve occupare lo Stato; oggi viene automatico pensare in questo modo. Ma non è così.
Soprattutto, non è stato così per moltissimi secoli.

È la società il vero titolare del diritto su ciò che è un bene per tutti, non lo Stato (o il Comune o la Provincia). Chi, come me, ha studiato soprattutto il diritto costituzionale, sa bene che nella nostra Costituzione Repubblicana c’è un punto in cui questa idea è detta in maniera chiarissima; è quell’articolo 2 che tanto deve al sindaco di Firenze - nonchè costituente - Giorgio La Pira, in cui si afferma solennemente che gli individui e le loro formazioni sociali vengono prima dello Stato e degli enti pubblici (e quale “formazione sociale” è più intuitiva della città in cui si vive? La famiglia, dovremmo forse dire, ma oggi avrei qualche dubbio).
E come vanno difesi questi fondamentali beni di relazione, questi beni comuni? Attraverso lo Stato? No! La prima responsabilità è il nostro «dovere di solidarietà» dice la Costituzione, parola oggi pressochè scomparsa dal lessico giuridico eppure esaltata in quello stesso articolo 2 che tutti citano solo nella sua prima parte (tutela dei diritti).
E lo stesso principio è ribadito proprio quando la Costituzione parla di Comuni, Regioni etc.; le «autonomie locali» vengono prima della Repubblica e, si badi, le autonomie locali non sono le istituzioni, ma sono le comunità sociali, i popoli, le aggregazioni di popoli che hanno «costituito» l’Italia. Da ultimo dal 2001, per chi fosse proprio duro d’orecchi, abbiamo inserito nella Costituzione il principio di «sussidiarietà orizzontale» che ripete ancora lo stesso valore per cui «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Chi è il titolare delle «cose» e delle «funzioni» di interesse generale? I cittadini singoli ed associati secondo il principio di «sussidiarietà».

Di che ha bisogno Firenze?
E così arriviamo all’altro grande interrogativo.
«Che fare?», direbbe Lenin.
Cosa possiamo fare per salvare Firenze (e per salvare il mondo)?
Doninelli fa alcune «modeste proposte», molto discutibili, lo dico subito; anzi, lo auspico (che siano discusse).
Come ho già detto, quel che mi pare interessante è, al di là del merito (il Museo della Città, pedonalizzare piazza della Stazione, la facciata di San Lorenzo, vendere il David al Louvre e Palazzo Strozzi alla Apple…), ancora una volta, il metodo.
C’è infatti un’altra mitologia fondativa della modernità che qui viene sfidata: ed è che le città si possano governare con regole e piani. (…)
Il piano è diventato così un super-strumento giuridico, capace di dettare a tutti i cittadini, gli usi consentiti e no nelle loro proprietà.
È in questi anni che prende forza la teoria per cui nella proprietà di un terreno non è compreso lo ius aedificandi, cioè se ho comprato un terreno posso farci quello che voglio, ma non costruirci; il diritto di costruire non è mio, è dello Stato. (…)
Che, dunque, la libertà di costruzione sia stata spesso arbitrio e violenza è sotto gli occhi di tutti.
Ma è il solito circolo vizioso.
Per ridurre gli abusi si moltiplicano le regole e i piani; ma più regole e piani moltiplicano la tendenza a “violarli” o, se ti puoi permettere avvocati benvoluti ai TAR, ad “eluderli”.
Come per le tasse. È ormai dimostrato che abbassarle (entro certi limiti) diminuirebbe l’evasione e quindi aumenterebbe il gettito fiscale. (…)

Ma la domanda, ahimè, rimane sempre la stessa: senza soldi, senza finanziamenti per investire, tutti questi poteri pianificatori e di controllo finiscono per essere esercitati sempre e solo nella loro versione “stop” e mai in quella “go”.
È di questo che Firenze ha bisogno, altri vincoli?
Quelli che ci sono oggi non bastano?
E, soprattutto, se non riusciamo a farli rispettare, invece che chiederci perché non ci riusciamo, che facciamo, li duplichiamo? In una sorta di “lascia o raddoppia” regolativo?
Insomma, anche qui mi pare che si risponda all’interrogativo (che fare?) con un’alternativa sbagliata: o un super-piano o l’arbitrio.
La lettura del libro di Doninelli mi ha convinto, però, che anche rispetto a questo dilemma esista un’altra possibilità.
È il valore dell’esempio. O forse sarebbe meglio dire del “simbolo”.
Tra la pianificazione centralizzata e il libero mercato esiste il valore di alcuni esempi “paradigmatici”.
Se guardiamo con attenzione le “proposte” del libro, non sono - ne vogliono essere - un nuovo piano regolatore o un programma quinquennale per la rinascita di Firenze; d’altronde, ad uno scrittore sarebbe improprio chiederlo. Ma è proprio questo il punto di metodo interessante: cosa “traina” i comportamenti collettivi? Cosa induce la trasformazione?
Una regola o la bellezza?
La forza di Firenze è che ha trainato il mondo con la bellezza, non adottando le “Linee guida del Rinascimento” e diffondendole tramite decreto. (…)
Su una cosa sono veramente d’accordo con Doninelli, ed è che Steve Jobs è stato quanto di più simile ad un uomo rinascimentale abbiamo potuto vedere perché ha scommesso tutto - e quando dico tutto, dico tutti i suoi soldi - sulla bellezza. E ci ha guadagnato.
Questo a me pare il valore delle proposte (forse non tutte allo stesso modo… il teschio di Hirst lo ritengo un inno al nihilismo e basta…) e delle idee lanciate in questo libro: se realizzate, avrebbero una funzione “simbolica” per la città (penso alla facciata di San Lorenzo o al progetto di riunire le “due Sante Marie Novelle” o a Palazzo Strozzi per il Museo Apple o al Museo d’arte contemporanea cinese…). Sarebbero un’iniezione di energia estetica dentro un corpo obiettivamente stagnante, una vera provocatio ad populum. (…)

A me pare che in ballo sia il ruolo stesso della autorità pubblica, che è tale solo in quanto favorisce la crescita (auctoritas da augeo).
Non si tratta, quindi, di una legge che preveda finanziamenti straordinari (oggi peraltro impossibile), o che consenta di levare tasse ulteriori casomai agli ignari turisti giapponesi (questo è già possibile), ma è in gioco molto di più: la riforma della idea stessa di istituzione cittadina.
Occorrebbe sì una legge, ma che cambi l’idea stessa di “Comune”, riconducendola alla sua origine di soggetto “affidatario” del “bene comune”.
Un’istituzione che abbia il compito di reprimere gli abusi e far rispettare le regole (poche, per favore, ma davvero rispettate), ma soprattutto abbia il compito di favorire esempi belli, cioè che “attirino” la volontà e così rendano anche più ragionevole il sacrificio. Occorre reinnescare l’emulazione che è l’unico vero fondamento della forza “normativa”.
Tutte le leggi hanno direttamente o indirettamente una valenza educativa, diceva un altro grande costituente fiorentino Piero Calamandrei, nel senso che vivono prima nella cultura e poi, se la cultura non funziona, nell’aula dei tribunali. (…)
Liberiamo Firenze, vuol dire cambiare la funzione dell’ente pubblico: da pianificatore-controllore a valorizzatore delle energie positive. È un cambiamento di mentalità prima che di leggi; oggi l’idea ancora dominante è che un’autorità pubblica misuri la sua forza dal potere di veto: posso dirti di no e quindi devi fare i conti con me. (…)
Il bene della cultura, cioè la cultura come un “bene” per la vita, si trasmette di generazione in generazione solo dentro una relazione umana e non per decreto. Così come l’amore per Firenze è passato all’autore di questo libro per le vie del sangue e, soprattutto, dell’educazione e, forse, allo stesso modo potrà contagiare i suoi lettori.

* Professore di Diritto costituzionale presso l'università degli studi di Firenze

Luca Doninelli
Salviamo Firenze
Bompiani
pp. 208 - € 12,50