Ludwig Mies van der Rohe nel suo studio.

MIES VAN DER ROHE La verità in architettura

Accetta la modernità senza subirla. Disegna l'ordine e la razionalità. E quando prova a prendere sul serio le proprie domande di uomo, incontra il pensiero di Agostino e Tommaso. Terza puntata della serie sugli architetti contemporanei
Lorenzo Margiotta e Carlo Maria Acerbi

Ludwig Mies van der Rohe è il padre dell’estetica architettonica contemporanea. Se Le Corbusier incarna l’anima più poetica del Movimento Moderno, l’architetto tedesco ne rappresenta l’aspetto più profondamente filosofico. Vive tra due mondi: l’Europa delle avanguardie, dove nasce nel 1886 (ad Aquisgrana, in Germania) e l’America della modernità e dei grattacieli, dove muore nel 1969.
Il suo interesse per l’architettura nasce dal padre, scalpellino. Durante l’infanzia Mies aiuta nella cava di famiglia, frequenta un corso di arti e mestieri e, lavorando da artigiani locali, sviluppa una grande capacità di disegno a mano libera. A 19 anni si trasferisce a Berlino, dove dapprima lavora senza salario in vari cantieri della città, poi entra nello studio di Bruno Paul come disegnatore di mobili e frequenta l’accademia di belle arti. L’incontro con la grande architettura avviene nel 1907, quando Mies approda nello studio di Peter Behrens, uno dei maestri dell’architettura del tempo, dove lavora al fianco di Gropius e per breve tempo anche di Le Corbusier. Da Behrens apprende l’idea di architettura come «arte di costruire», oltre ad un «senso profondo della grande forma», ossia la forma monumentale, evocativa dello spirito del tempo.

DAL BAUHAUS ALL'ILLINOIS INSTITUTE OF TECHNOLOGY
Nel 1912 lascia lo studio di Behrens e l’anno successivo apre la propria attività a Berlino. Sono anni in cui si dedica alla ricerca teorica, scrive su importanti riviste d’avanguardia ed è autore di progetti-manifesto. Si afferma, dunque, come una delle principali personalità dell’architettura tedesca, cosa che gli vale un ruolo di primo piano tra i docenti del Bauhaus, la scuola d’arte, design e architettura moderne dove insegnano maestri come Gropius, Klee e Kandinsky. È in questi anni, come testimoniano alcuni documenti emersi dai suoi archivi, che conosce e diviene amico di Romano Guardini, che in quel periodo frequentava il mondo degli artisti d’avanguardia per capire i presupposti culturali di questi movimenti artistici. I due scambieranno importanti riflessioni sul grande tema della modernità e della sua relazione con l’uomo.
Quando, a metà degli anni ‘30, il governo nazista dichiara apertamente la propria ostilità ai programmi del Bauhaus, Mies, allora direttore della scuola, è costretto a chiuderla e a lasciare l’Europa per gli Stati Uniti. Qui, dove la sua fama è già notevole, diviene preside della scuola di architettura Armour Institute of Technology di Chicago, dove formerà intere generazioni di giovani.

IL PILASTRO A CROCE E L'EDIFICIO AD AULA
Le opere di Mies hanno segnato il punto più avanzato della modernità in architettura. Alcuni edifici, oltre a essere specialmente evocativi della sua poetica, rappresentano vere e proprie pietre miliari del costruire moderno.
Il Padiglione di Barcellona, costruito per l’Esposizione Universale del 1929, è la sintesi di una lunga ricerca sull’abitazione e segna dei “punti di non ritorno” nella disciplina della composizione architettonica e nelle tecniche costruttive: il pilastro a croce in acciaio, la separazione degli spazi attraverso setti ortogonali indipendenti, la definizione dello spazio della casa attraverso l’uso di un recinto che la separa dalla strada.
Nei Lake Shore Drive Buildings Apartments di Chicago (1948-‘51), invece, Mies inventa il cosiddetto curtain wall, un sistema di facciata realizzato in lastre di vetro sostenute da telai d’acciaio. Una novità epocale che rivoluziona il rapporto tra interno ed esterno degli edifici – prima di allora esisteva solo la tradizionale muratura con finestre – offrendo a tutti gli appartamenti l’affaccio sul lago Michigan.
Nel Seagram Building di New York (1954-‘58) l’invenzione è urbana: Mies arretra il grattacielo rispetto al filo della strada quando nessuno lo faceva – la base dell’edificio occupava sempre l’intera superficie dell’isolato in cui era inserito. In tal modo lo mette in risalto e, attraverso la piazza, costruisce un rapporto con la città.
Ci sono poi architetture che contribuiscono a definire in modo definitivo la tipologia dell’edificio ad aula. Il luogo più semplice e al contempo universale: uno spazio indiviso, libero da pilastri e definito solo da un tetto, in cui le persone possono riunirsi per le funzioni più diverse. Una sorta di moderna piazza coperta. Sono la Crown Hall di Chicago (1950-‘56), sede dell’Illinois Institute of Technology; la Convention Hall, sempre a Chicago, mai costruita; la Neue Nationalgalerie di Berlino. Non mancano progetti urbani, come Lafayette Park, un grande quartiere di Detroit (1955), in cui Mies realizza la progettazione urbana come un’opera di ordine e riafferma il principio caro al Movimento Moderno di città contemporanea costruita nella natura.
Celeberrima, infine, è Casa Farnsworth, in cui Mies costruisce un luogo per stare nel bosco. La casa è, essenzialmente, il luogo dello stare – una parola magica per lui – e la qualità dello stare è definito dal rapporto con la natura.
L’insieme di queste opere ha definito uno stile, nel tempo soggetto a molte copiature e a grosse riduzioni. Ma l’eredità più importante consiste in un metodo di lavoro, che ha tra i suoi presupposti fondamentali una straordinaria attività teorica.

CHE COS'È L'ARCHITETTURA
«Quando ero giovane iniziammo a chiedere a noi stessi: “Cosa è architettura?”. Lo chiedemmo a chiunque. Essi dicevano: “Quello che noi costruiamo è architettura”. Ma non eravamo soddisfatti di questa risposta. Finché capimmo che era una domanda inerente la verità: cercammo di scoprire che cosa realmente fosse la verità. Rimanemmo incantati trovando una definizione di verità di Tommaso d’Aquino: “Adaequatio rei et intellectus”. Non l’ho mai dimenticato».
Mies legge molto, fin da giovanissimo, «per avere le idee chiare su quanto accade, sui caratteri del nostro tempo e capire il significato di tutto». Per rispondere alle sue domande più profonde, gli sono d’aiuto soprattutto i filosofi e i teologi medievali, che Mies conosce per la sua origine e formazione cattolica romana: «Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino mi hanno spinto a pensare in modo più chiaro e credo che dopo averli studiati ho capito meglio i problemi». Si definisce un uomo religioso, anche se – afferma – «non sono affiliato a nessuna Chiesa».
Il suo mestiere, il fare architettura, è il campo su cui mette in gioco le questioni fondamentali: «Dobbiamo mirare al nocciolo della verità. Le domande relative all’essenza delle cose sono le uniche domande importanti». In architettura, per Mies, la verità ha a che fare innanzitutto con il tema della costruzione. L’architettura stessa è, nella sua definizione, «chiarezza costruttiva portata alla sua espressione esatta». Che cosa intenda per «chiarezza costruttiva» lo si comprende bene quando parla della cappella di Aquisgrana: «Ricordo che ad Aquisgrana, la mia città natale, c’era la cattedrale e la cappella era un edificio ottagonale fatto costruire da Carlo Magno. Nei secoli questa cattedrale è stata trasformata. In età barocca la intonacarono interamente e aggiunsero delle decorazioni. Quand’ero ragazzo tolsero l’intonaco. Poi però non poterono andare avanti perché vennero a mancare i fondi e così si potevano vedere le pietre originali. Guardando la costruzione antica priva di rivestimenti, osservando le belle murature in pietra o in mattoni, una costruzione limpida, fatta da artigiani davvero bravi, sentivo che avrei rinunciato a tutto per un simile edificio».

IL NOSTRO TEMPO È COME UN COMPITO CHE DOBBIAMO ASSOLVERE
«L’architettura è sempre legata al proprio tempo. Il nostro tempo non è per noi una strada estranea su cui corriamo. Ci è stato affidato come un compito che dobbiamo assolvere. Da quando l’ho capito, ho deciso che non avrei mai considerato con favore le mode in architettura e che dovevo cercare princìpi più profondi. L’essenza dell’epoca è l’unica cosa che possiamo esprimere davvero».
La premessa teorica dell’opera di Mies è la volontà di costruire un’architettura moderna, liberata dalla sovrastruttura dell’architettura ottocentesca. Un’architettura espressiva dei valori del proprio tempo, così come lo sono gli edifici antichi: le cattedrali romaniche e gotiche, gli acquedotti romani e i moderni ponti sospesi, architetture dalla cui forza Mies rimane impressionato. «Tutti gli stili, i grandi stili, erano passati, ma essi erano ancora lì».
Ma quali sono i valori di un’epoca e come si riconoscono? «Capire un’epoca – scrive – significa capire la sua essenza e non ogni cosa ci venga innanzi agli occhi». Per Mies il ‘900 è l’epoca dell’economia, della scienza, della tecnologia: «Niente più avviene che non sia osservabile. Dominiamo noi stessi e il mondo in cui ci troviamo. La forza guida del nostro tempo è l’economia».
Qual è allora il ruolo dell’architetto in un tempo così descritto? «Dobbiamo accettarlo – afferma – anche se le sue forze ci appaiono così minacciose. Dobbiamo diventare padroni delle forze incontrollate e disporle in un nuovo ordine, ossia un ordine che dia libero spazio al dispiegamento della vita. Sì, però un ordine che si riferisca agli uomini». Non si tratta di ritirarsi dal proprio tempo né di rimpiangere epoche passate. Al contrario, «per quanto gigantesco possa essere l’apparato economico, per quanto potente la tecnica, tutto ciò è soltanto materiale grezzo se confrontato con la vita. Non abbiamo bisogno di meno tecnica, bensì di più tecnica. Non abbiamo bisogno di meno scienza, ma di una scienza più spirituale; non di minori energie economiche, bensì di energie più mature».
Colpisce notare la totale coincidenza con quanto Romano Guardini scrive, nella nona delle Lettere dal Lago di Como, sullo stesso tema: «Per poter renderci padroni del “nuovo”, dobbiamo in giusto modo penetrarlo. Dobbiamo dominare le forze scatenate onde farle attendere alla elaborazione di un ordine nuovo, che sia riferito all’uomo. Ma, in ultima analisi, questa opera non può compiersi ove si prendano come punto di partenza i problemi tecnici; essa è resa possibile solo partendo dall’uomo vivente. Si tratta, è vero, di problemi di natura tecnica, scientifica, politica; ma essi non possono essere risolti se non procedendo dall’uomo. O meglio: ciò che ci occorre è una tecnica più forte, più ponderata, più “umana”. Ci occorre più scienza, ma che sia più spiritualizzata, più sottomessa alla disciplina della forma; ci occorre più energia economica e politica, ma che sia più evoluta, più matura, più cosciente delle proprie responsabilità».
Mies fa sue le parole di Romano Guardini, dando al Movimento Moderno una declinazione che potremmo definire umana. Egli si pone come missione quella di “umanizzare” il moderno, cogliendo quanto potessero essere pericolose quelle posizioni ideologiche che identificavano la modernità con il mito del progresso e della tecnica. Orientare la tecnica al servizio dell’uomo, e darle forma, sarà il lavoro di una vita.

LESS IS MORE
«Sapete, ogni cosa è così complicata in un edificio. Per raggiungere una chiarezza dobbiamo semplificare praticamente ogni cosa. È un lavoro duro. Bisogna combattere, e combattere, e combattere».
Tutto il lavoro di Mies e della sua scuola si fonda su due pilastri fondamentali: ordine e razionalità. Per Mies l’ordine non è qualcosa che si impone ma qualcosa che va cercato e trovato, il risultato di un processo di conoscenza della natura delle cose. L’architettura, allora, non è altro che una forma di conoscenza della realtà, la ricerca della forma più rispondente alla natura delle cose.
La forma è il risultato di un percorso razionale, che non ha nulla a che vedere col fantasioso o l’arbitrario, ma che procede di scelta in scelta, dalla complessità all’essenzialità, fino al punto in cui nulla può essere aggiunto e nulla tolto. La misura esatta, l’esatta proporzione, il giusto uso del materiale. Si può allora comprendere la sua frase più famosa – “Less is more” – al di là del banale minimalismo e razionalismo a cui spesso viene ridotta: la semplificazione non è fine a se stessa, non è uno stile né un linguaggio, ma la riduzione della complessità dei fenomeni della realtà alla loro qualità essenziale. Ciò che porta Mies a realizzare architetture classiche e al contempo moderne. Senza tempo.