OSCAR NIEMEYER La bellezza vale più di tutto
Brasiliano, religiosamente ateo, comunista idealista, convinto assertore delle aspirazioni di giustizia e solidarietà. Progettò un’intera città: Brasilia. È morto lo scorso 5 dicembre. Quarta puntata della serie sull'architettura contemporanea.Ogni mattina arrivava puntuale nel suo studio affacciato sulla spiaggia di Copacapana, da dove guardava il mare e le colline di Rio. Fino al 5 dicembre, quando il Brasile si è svegliato senza uno dei suoi artisti più grandi e l’architettura moderna senza uno dei suoi padri. Oscar Niemeyer è morto alla soglia dei 105 anni all’ospedale Samaritano di Rio de Janeiro. La presidente Dilma Roussef ha decretato tre giorni di lutto nazionale e messo a disposizione il palazzo del Planalto, uno degli edifici che ha progettato a Brasilia, la città da lui costruita assieme all’urbanista Lúcio Costa.
Architetto, ingegnere, ultimo grande maestro del Novecento, monumento stesso di un’epoca e di un Paese, era stato Premio Pritzker nel 1988 e Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1996. Abitava in un appartamento di tre stanze nel bairro di Ipanema con Vera, la sua ex segretaria, sposata a 99 anni. Religiosamente ateo, era un comunista idealista, convinto assertore delle aspirazioni di giustizia e solidarietà. Da poco era uscito per Mondadori il suo libro-testamento, Il mondo è ingiusto.
UN SECOLO DI ARCHITETTURA
Niemeyer nasce a Rio de Janeiro nel 1907 da una famiglia di origini tedesche. Dopo una gioventù da «ricco bohémien carioca» e dopo essersi sposato a 21 anni con Annita Baldo, figlia di immigrati veneti, si laurea alla Scuola nazionale di Belle Arti di Rio nel 1934 e comincia a lavorare nello studio di Lúcio Costa, uno dei più importanti architetti del Paese: «Sebbene non avessi un soldo, ho preferito lavorare gratis nello studio di Costa dove trovavo le risposte ai miei dubbi di giovane studente». Nel 1937 avviene uno degli incontri decisivi della sua vita: con Le Corbusier, in quegli anni impegnato alla costruzione del nuovo ministero dell’Educazione e della Sanità di Rio, che lo definirà «ragazzo prodigio». Un’esperienza che sarà per lui «estremamente formativa». Dieci anni più tardi, nel 1947, i due saranno ancora insieme nel progetto del nuovo Palazzo delle Nazioni Unite a New York.
Nel 1956 la carriera di Niemeyer, già affermato protagonista del Modernismo brasiliano, segna una svolta decisiva. Il nuovo Presidente del Brasile, Juscelino Kubitschek, pone tra i punti fondamentali del suo programma la creazione della nuova capitale politica, Brasilia. A Niemeyer è affidata la direzione architettonica della Nova Cap, l’impresa statale che si occupa dei lavori, mentre Lúcio Costa è il vincitore del concorso internazionale per il progetto urbanistico. I lavori procedono alla massima velocità e nel 1960 la nuova capitale viene inaugurata.
Ma Niemeyer sarà costretto, di lì a pochi anni, a lasciare il Paese per le minacce del regime militare salito al potere con il golpe del 1964: il suo studio verrà saccheggiato più volte e la rivista Modulo, che aveva fondato nel 1955, sarà chiusa. «Durante la dittatura tutto è stato differente», ha ricordato: «I miei progetti poco a poco hanno incominciato a essere rifiutati. Il posto di un architetto comunista è a Mosca, mi disse un giorno un ministro». Durante il suo esilio europeo progetta, tra l’altro, la sede parigina del Partito comunista francese (1967-71) e la sede della casa editrice Mondadori a Segrate (1968-75).
All’inizio degli anni Ottanta, con la fine della dittatura, torna a lavorare in Brasile, dove insegna all’Università di Rio de Janeiro e realizza, oltre a una serie di altri progetti, alcuni dei suoi edifici più noti e riusciti, come la Passarela do Samba a Rio (1985) e il bellissimo museo di Niterói (1996), la città che fronteggia Rio sulla baia di Guanabara, uno dei suoi lavori più famosi.
BRASILIA, MUSEO DELLA MODERNITÀ
«Ma fu a Brasilia che la mia architettura si fece più libera e rigorosa. Libera, nel senso della forma plastica; rigorosa per la preoccupazione di mantenerla entro limiti regolari e definiti. E, senza dubbio, divenne più importante perché si trattava dell’architettura di una capitale. La mia preoccupazione fu di caratterizzarla con le sue proprie strutture, alleggerendo gli appoggi con l’intento di rendere i palazzi più lievi, come se toccassero semplicemente il suolo, e incorporare l’architettura nel sistema strutturale» .
(Oscar Niemeyer)
Avere l’opportunità di progettare e costruire una città di fondazione era il sogno di tutti gli architetti del movimento moderno. Tra i pochissimi che ci riuscirono ci sono Lúcio Costa e Oscar Niemeyer.
Il grandioso progetto del presidente Kubitschek, dai toni pionieristici, si fonda sulla volontà di dare corpo a un’istanza secolare di costruzione di un’identità nazionale. La scelta di costruire la nuova capitale al centro del Brasile, lontano dall’urbanizzazione dei colonizzatori europei, era maturata già ai tempi del primo movimento indipedentista brasiliano (l’Inconfidência Mineira, nel 1789), ed era poi stata sancita nella Costituzione del 1891.
L’innovativo piano urbanistico disegnato da Lúcio Costa ha forma d’uccello, con un asse centrale lungo il quale si allineano gli edifici pubblici e, ai lati, le grandi ali per le abitazioni. Una città-parco ispirata tanto all’ingegneria autostradale (da qui la critica di essere più adatta alle auto che alle persone) quanto al protagonismo della natura e del paesaggio, che divengono uno dei suoi fattori principali. Il disegno urbano è fondato sull’invenzione delle superquadras, isolati verdi di 300 metri di lato al cui interno trovano posto dieci palazzi alti sei piani e tra i quali sono posti gli edifici pubblici e commerciali.
Il punto di riferimento obbligato nel panorama internazionale, per un’operazione colossale come questa, era ancora una volta Le Corbusier. L’unico ad aver mai realizzato qualcosa di simile a Chandigarh, capitale della regione indiana del Punjab, nel 1951.
Inaugurata il 21 aprile 1960, un anno dopo il celebre CIAM di Otterlo del 1959, il congresso internazionale di architettura che aveva ufficializzato la fine del movimento moderno ai cui precetti pure il progetto della città si ispirava, Brasilia è da subito oggetto di entusiasmi e critiche. Se da una parte essa era riuscita nell’intento di costruire, attraverso l’uso dello stile modernista, una vera e propria «modernità nazionale»; dall’altra le venne imputato l’insuccesso nella trasformazione sociale che il suo progetto aveva promesso.
Il credo socialista applicato all’architettura prevedeva quartieri divisi per funzioni, con edifici simili e appartamenti con poche modifiche interne. Tutte le case erano di proprietà del governo e affittate ai lavoratori, senza distinzioni tra ceto politico e cittadini comuni. Negli anni però anche Brasilia conoscerà le profonde contraddizioni delle megalopoli contemporanee: dalla crescita senza controllo delle favelas alle grandi emergenze sociali.
Niemeyer, che eseguì il lavoro ricevendo solo il modesto stipendio di funzionario dello Stato, ne parlava come di «un sogno realizzato». L’aver dimostrato che anche «il Brasile poteva essere capace di fare grandi progetti, di creare addirittura una città» lo portava a minimizzare le accuse che venivano mosse a quel progetto: «Brasilia ha gli stessi problemi di tutte le altre città, dal degrado degli edifici alla difficile manutenzione. Ma nonostante tutto può andare bene così».
A lui si deve il progetto degli edifici istituzionali lungo l’asse monumentale: il palazzo dell’Alvorada, la residenza privata del presidente della Repubblica; il Planalto, il Quirinale brasiliano; e poi il palazzo del Congresso, i ministeri degli affari esteri e della difesa, il Palazzo della Corte Suprema, la piazza dei tre Poteri. E, infine, la cattedrale, ancora oggi considerata uno dei maggiori capolavori: «Ho evitato le soluzioni delle vecchie cattedrali buie, che ricordano il peccato. Al contrario ho fatto scura la galleria di accesso alla navata, e questa l’ho voluta tutta illuminata, colorata, rivolta con le sue belle vetrate allo spazio infinito».
Vero e proprio museo della modernità a cielo aperto, Brasilia conserva un grande senso di bellezza e di grandezza. Le qualità plastiche e simboliche dell’asse monumentale, il surrealismo espressivo delle cupole del Congresso, i magnifici giochi volumetrici restano negli occhi ne fanno una delle icone del XX secolo
UN ALTRO MODERNO
«Non è l’angolo retto che mi attira. Neppure la linea retta, dura e inflessibile creata dall’uomo. Quello che mi attira è la linea curva libera e sensuale. La linea curva che ritrovo nelle montagne del mio paese, nel corso sinuoso dei suoi fiumi, nelle nuvole del cielo, nel corpo della donna amata. L’universo intero è fatto di curve».
(Oscar Niemeyer)
Dopo Brasilia l’attività di Niemeyer cresce ulteriormente, tanto che sono più di seicento le opere realizzate in tutto il mondo in oltre 70 anni di carriera.
Le sue architetture sono diventate simbolo di una maniera visionaria, provocatoria di applicare il verbo del movimento moderno, molto spesso sovvertendolo, al punto da meritarsi l’accusa di tradimento e di formalismo dai rigidi custodi del purismo razionalista. Le linee curve, infatti, sembrano offrire un’alternativa poetica alle linee dritte e agli angoli retti dello dell’architettura razionalista europea, di cui furono antesignani Gropius, Mies Van der Rohe e Le Corbusier. Quest’ultimo - come ha acutamente osservato Pippo Ciorra sul Manifesto - «rimarrà sempre il suo faro, “dispositivo necessario” per mettere insieme l’ottimismo politico e figurativo del primo modernismo con le passioni sudamericane per la luce accecante, il cemento brut o intonacato di bianco, l’ardimento strutturale e la potenza curva e scultorea del barocco brasiliano del XVIII secolo.
Le opere del primo periodo di Niemeyer sono l’applicazione perfetta di questa versione antirazionalista di un lessico moderno fatto di edifici sospesi su pilotis, frangisole, tetti-giardino, promenades architettoniche ardite e sorprendenti. Il tutto però tradotto e adattato a una «scala americana», dove tutto è più grande, più nitido, più letterale. Il padiglione brasiliano per la fiera di New York del 1939 (con Lúcio Costa) e gli edifici per il quartiere di Pampulha a Belo Horizonte (1941-42) sono le icone di un periodo particolarmente felice, nel quale si consolida anche la collaborazione con il paesaggista-pittore Roberto Burle Marx. Insieme precisano una specie di nuovo stile nazionale, che si basa su un’armonia tra il disegno delle forme architettoniche e quello degli spazi aperti che il modernismo europeo e nordamericano non raggiungono mai».
Ripercorrendo le sue opere principali, come l’edificio Copan (1951), il Memoriale dell’America Latina (1987) a San Paolo, la sua villa a Canoas, la Casa della Cultura a Le Havre (1972-83), il Sambódromo a Rio de Janeiro (1983), e tra le più recenti il Teatro Araras a San Paolo (1995), il Museo Oscar Niemeyer a Curitiba (1988-2002), la Serpentine Gallery a Londra (2003), colpisce l’assoluta mancanza di dubbi, l’energia, l’assertività, un’architettura che proclama costantemente il trionfo delle forme. Diceva spesso: «Quando la struttura è fatta, l’architettura è compiuta». Dominava in lui l’aspetto strutturale, che coincideva con la forma finale dell’opera.
In Italia vi sono tre sue architetture: la sede della Mondadori a Milano, la sede della società Burgo a Torino e l’Auditorium di Ravello. Il quarto progetto, uno stadio progettato a Torino per i Mondiali del ’90, resterà solo sulla carta.
L’edificio commissionatogli da Arnoldo Mondadori, che Niemeyer ritiene una delle sue opere più belle, racchiude una straordinaria invenzione: non è sorretto dalla struttura in cemento armato ma è ad essa “appeso”, sollevato sopra uno specchio d’acqua. Così ne parla l'autore «Anche alla Mondadori, in quegli anni, si respirava un clima di audacia e innovazione. Andammo contro molti pareri: "Non funzionerà", dicevano. Invece riuscimmo a fare una cosa molto nuova, con gli spazi di forma irregolare tra le colonne. Nell’architettura il vuoto è importante quanto il pieno, per dare armonia all'insieme. E poi lo spazio interno senza divisioni fu una scelta di democrazia. In Brasile sarebbe stato impossibile costruire un palazzo di giornalisti senza la stanza del direttore, quella della segretaria...».
«L’ARCHITETTURA NON È IMPORTANTE, QUELLO CHE CONTA È LA VITA»
Non è mancato, tra i tanti commenti che la stampa ha dedicato a Niemeyer nei giorni successivi alla sua morte, chi lo ha definito il prototipo di tutte le archistar. Niente di più lontano. È lui stesso a dirlo, poco prima di morire: «Mi fanno inorridire; la nuova architettura è noiosa e priva di bellezza. Tutti quegli edifici di vetro puntano a stupire, ma non sanno che la bellezza sta nella semplicità e che la tecnologia deve essere sempre al servizio della bellezza». In un’altra occasione afferma: «Non volevo, al contrario della maggior parte dei colleghi, adattarmi all’architettura commerciale che vediamo dappertutto».
Dopo la notorietà degli anni Sessanta, Niemeyer avrebbe potuto «esportare uno stile», cosa che non farà mai, come osserva ancora Renzo Piano: «I suoi progetti non puntano mai a diventare un brand, come si dice oggi. Niemeyer ha esplorato diverse strade, ha manifestato un costante desiderio di movimento. Considero il più grande pregio di Niemeyer l’incessante attitudine ad apprendere. A 85 anni continuava ad imparare. Me lo scrisse in una lettera che risale a due decenni fa. E credo che fino all’ultimo respiro Oscar Niemeyer abbia pensato a come proseguire il suo lungo apprendistato. Ai miei occhi è sempre sembrato un giovane vecchio, un maestro che ha innestato la propria maturità su una specie di adolescenza prolungata nel tempo. La sua è una lezione che vale per tutti noi che facciamo questo lavoro». Come testimoniano anche le parole del medico che lo ha curato nell’ultimo periodo: «Ogni giorno incontrava il suo staff per discutere di nuovi progetti».
D’altra parte, come diceva, «l’architettura è solo un pretesto. Importante è la vita, la famiglia, l'uomo, questo strano animale che possiede anima e sentimento, e fame di giustizia e bellezza. Quello che conta è vivere con passione, inseguire i propri ideali, non tergiversare». Ideali che lo hanno sempre mosso, come la fede per il comunismo e la volontà di pensare a edifici che siano innanzitutto belli da vedere, per poter offrire a tutti «il piacere dello stupore, lo spettacolo dell’architettura».
Progettista militante, amico di Fidel Castro (che di lui diceva: «Niemeyer e io siamo gli ultimi comunisti rimasti a questo mondo»), di sé diceva: «Non sono cattolico», diceva: «Ma mi piacerebbe credere in qualcosa». Era stato anche uno dei 60 artisti prescelti dal cardinale Ravasi per rendere omaggio, in una mostra in Vaticano nella scorsa estate, ai 60 anni di sacerdozio di Benedetto XVI (aveva accettato inviando il modello per il campanile della nuova Cattedrale di Belo Horizonte, perché «voleva che il Papa la vedesse»).
Fino all’ultimo ha avuto nel cuore il Brasile: «Il mio è il Paese di Ipanema e delle favelas, per il quale bisogna combattere sempre». Con lo strumento della bellezza che - diceva - «per me vale più di tutto». «Non credo che il mio Paese possa cambiare completamente in qualche anno. Ma voglio continuare a posare le mie piccole pietre per costruire un mondo migliore. L’ho fatto durante tutta la mia vita e non intendo incrociare le braccia adesso. Sono restato me stesso fin dall’infanzia».