Carlo Carrà, <em>Pino sul mare</em>, 1921.

Carrà, la pittura dei sentimenti italiani

Fu uno dei pochi artisti del Novecento amati dal grande critico d'arte antica Roberto Longhi. Dipinse con i futuristi ed ebbe una fase "metafisica". Alla Fondazione Ferrero di Alba una mostra rende omaggio a una figura per troppo tempo snobbata
Giuseppe Frangi

Ci sono luoghi che sanno trasformare in vere opportunità alcuni regali del destino. Ad Alba, provincia di Cuneo, il 28 dicembre 1890 era nato Roberto Longhi, il più grande storico dell’arte del secolo passato. E sempre ad Alba una dinastia industriale ha saputo costruire e far crescere un’impresa modello del made in Italy, la Ferrero. Proprio quest’ultima, con la sua Fondazione, da qualche anno sta portando avanti un programma intelligente di rivalutazione di grandi autori del 900 cari a Longhi (che per altro deve la sua fama agli studi sull’arte antica). Prima c’era stata la mostra sui Paesaggi di Giorgio Morandi. Ora è la volta di Carlo Carrà (sino al 27 gennaio). Prima di entrare nelle sale però è giusto dare qualche dato di contesto. La struttura della Fondazione è molto sobria e non ha nulla dell’altezzosità di tante analoghe strutture private europee. Si apre a poche decine di metri dagli impianti industriali (evitando quella tentazione di separatezza tra business e filantropia) e ha tutt’intorno i campi della Scuola Calcio, che è un’altra attività della Ferrero a servizio della sua comunità: decine di bambini (con la pelle di ogni colore) gridano e corrono proprio di fronte all’ingresso della mostra. All’interno la sorpresa è grande, per l’affollamento davvero incredibile: che una mostra di Carrà in un luogo pur bello ma decentrato come Alba, riesca a riscuotere tanto successo è cosa che deve far riflettere. Per la precisione, entrando leggo sul mio biglietto il numero 30195…

Poi c’è la mostra. Curata da Maria Cristina Bandera, propone una selezione vasta di opere di Carrà (piemontese pure lui, essendo nato in provincia di Alessandria, a Quargnento, nel 1881. Morirà 85 anni dopo a Milano). Una selezione curata con intelligenza, avendo l’accortezza di coprire tutto il percorso ma accentuando quelle fasi della parabola dell’artista che meglio ne rendono la statura. Ad esempio la fase futurista, contrassegnata da una energia e da una spregiudicatezza, anche a livello tecnico, che poi Carrà si lascerà alle spalle, per riparare in una classicità più congeniale al suo dna. Sono opere in cui l’artista tiene saldamente sotto controllo la frenesia propria del futurismo, come accade ne L’uscita da teatro (il teatro è ovviamente La Scala: il futurismo è intriso di milanesità…).

Segue la fase metafisica, forse quella più “europea” e ambiziosa dell’artista. Dopo il momento della pittura murale, quello novecentista che Longhi non amava (e aveva ragione), Carrà approda in quella lunga bonaccia vissuta in particolare sulle coste della Versilia. «Ritorno a forme primitive, concrete», aveva spiegato a Giuseppe Papini. La sua è pittura meditata, vissuta, impregnata di gusto e di sentimenti italiani, come accade nell’opera del 1921, Pino sul mare, scelta come manifesto della mostra. Pittura senza più ambizioni di innovare ma attenta ad approfondire un mondo che viene sempre più sentito e visto come la propria casa. Pittura assorta, densa di affetto per quel piccolo mondo stupendo che l’artista aveva ogni giorno davanti agli occhi. Si ritrova qualcosa di Morandi, senza che Carrà abbia mai la capacità di rarefazione (e quindi l’altezza poetica) propria del grande artista bolognese. Alla fine del percorso si ha la sensazione di aver rivissuto la parabola di un vero artista italiano, che risparmia pretenziosità e astrusità, portando avanti una meditazione che, quando trova grandi sponde o compagni di avventura (ad esempio, con il futurismo o con De Chirico), raggiunge più solidità e più risonanza. Comunque una bella mostra; e una mostra “giusta” perché restituisce Carrà ad una cultura e ad un paese che per troppo tempo l’avevano colpevolmente snobbato.