Andrée Ruth Shammah.

"I tre moschettieri" del palcoscenico

A quarantanni dalla prima dell'"Ambleto" testoriano, Andrée Ruth Shammah racconta l'esordio di quell'avventura. Lei, Franco Parenti e Giovanni Testori. Un trionfo. Che dice molto al teatro di oggi, dove «gente "tanta" così non ce n’è tanta»
Luca Fiore

Lei era una ragazza di ventiquattro anni. E si trovò in mezzo a due mostri sacri come Franco Parenti e Giovanni Testori. Ci tiene a precisare che senza la sua mediazione i due non si sarebbero né conosciuti né sopportati. Oggi Andrée Ruth Shammah festeggia i 40 anni della prima dell’Ambleto testoriano che diede inizio all’avventura del Salone Pier Lombardo, poi ribattezzato Teatro Franco Parenti. La Shammah torna volentieri a quel periodo avventuroso, ma rivendica tutta la storia di questo teatro che è una delle realtà più vive del panorama milanese e italiano.

Come ricorda quell’inizio?

Tutto nacque al Piccolo Teatro alla fine degli anni Sessanta, dove lavoravo. Strehler era uscito nel 1968 per fondare una sua compagnia. Il teatro era diretto da Paolo Grassi. Sotto la sua direzione si era creato un clima, con Franco Parenti e lo scenografo Gian Maurizio Fercioni, in cui si sviluppò una certa idea di teatro per la città. Era una drammaturgia che puntava su temi etici forti. Si voleva parlare dell’uomo, ma senza una banalizzazione appiattita sull’attualità. La lingua doveva avere il suo peso. Sono idee nate al Piccolo in quegli anni, quando Parenti faceva Ruzzante e il Porta. Poi tornò Strehler nel 1970 e Grassi andò a dirigere la Scala. Parenti decise di andarsene. Fu lo stesso Grassi a dire che quella esperienza non poteva morire e che dovevamo trovare un posto dove svilupparla.

Approdaste tre anni dopo in via Pier Lombardo 14.

Il progetto della cooperativa era pronto da un pezzo. La cosa più complicata fu proprio trovare lo spazio. Lì c’era un cinema. Lo scoprirono Testori e l’attore Elio Veller e dissero che dietro lo schermo c’era un palcoscenico. Facemmo un accordo con l’allora assessore alla cultura Paolo Pillitteri. Nonostante le prime parole d’incoraggiamento, il Piccolo non vedeva assolutamente di buon occhio che nascesse un’altra realtà da una sua costola. E poi con un autore forte come Testori...

Vi chiamarono "i tre moschettieri"...
Sì, eravamo io, Franco e Testori. Parenti disse che solo la follia ci dava il coraggio di incominciare. Testori parlava dell’orgoglio della povertà.

Non avevate molti soldi.
Non avevamo il becco di un quattrino. Ci sono stati attori che malignamente dissero che pagava «il papà dell’Andrée». Ma mio padre non era per niente contento di quel che andavo a fare con quel comunista sgangherato che era Franco. Abbiamo iniziato senza paga. Io ero una ragazza, ma c’erano fior di professionisti. Parenti aveva diretto il Teatro Stabile di Palermo. Testori aveva scritto per Visconti. C’era Dante Isella che aveva l’impegno di perlustrare la cultura lombarda, cosa che il Piccolo aveva rinunciato a fare.

Come fu accolto l’Ambleto?

Un trionfo. Non credevamo ai nostri occhi. Alla prima c’era tutta la Milano che contava, dagli industriali ai direttori di giornali. Era un avvenimento che nessuno si aspettava in città. Poi durare non è stato facile. Non ci hanno perdonato le scelte di troppa libertà. A Franco non hanno perdonato di essere un comunista a modo suo, provocatorio. A me non hanno perdonato di essere una non femminista, una non schierata nella comunità ebraica. A Testori non perdonavano di dichiarare di essere cattolico ma di non stare dalla parte della Curia.

Oggi però fate quarant’anni.

Sì. Non l’avrei mai detto. Ma io dico: il quarantesimo è importante perché il prossimo è il primo. Per la cultura ebraica il 40 è un numero particolare: i quaranta giorni e le quaranta notti di Mosè sul monte Sinai, ma anche le quaranta settimane per far nascere un figlio... Non le sto a dire l’etimologia ma il 40 è il primo del nuovo quaranta. Allora vuol dire che questo quarantesimo è l’inizio di un nuovo ciclo.

Facendo un passo indietro, che cosa significò per Milano e per il teatro italiano l’incontro tra Parenti e Testori?

Penso fosse l’interesse per l’uomo e la potenza della parola. Parenti, ateo e ribelle, era sicuramente attratto dal valore alto dell’uomo. Per lui l’uomo era una solitudine di fronte a qualsiasi struttura organizzata, si chiami Comunismo o Capitalismo. La sua immagine di uomo era quella del tornitore che vede il mondo mentre fa il suo lavoro, in quel che sta tornendo c’è il mondo intero. Testori aveva una richiesta, un urlo di verità che esprimeva attraverso la parola. Per Parenti la potenza della parola era molto importante. E Testori ha sempre difeso nell’infinitamente piccolo l’infinitamente grande. Per cui per lui parlare della Lombardia o di Milano non era parlare di Milano o della Lombardia, ma parlare del mondo. Era cercare di andare in profondità, anziché procedere in orizzontale.

È ancora possibile fare una proposta culturale attraverso il teatro senza ridursi a “spettacolificio”?

Non le so rispondere. Io ho fatto in questi mesi delle conferenze dove ho cercato di ripercorrere il cammino che abbiamo fatto in questi anni. E non capisco se dipende solo dalle persone, dal livello d’intensità che si mette nella collaborazione, o dalla società intorno. Non so. Ma sono ragionamenti che possono avere solo una risposta: deve essere possibile. Si troveranno delle altre forme, degli altri cammini... Non si può accettare di dire che non lo è.

Che cos’è che sta soffocando il teatro oggi?

Sembra assurdo, ma è la quantità di teatro. C’è tanto, tanto teatro. Tutti fanno teatro. C’è una quantità di proposte teatrali, una quantità di compagnie, una quantità di giovani che si rivolgono al teatro che fa impressione. Non ha idea del numero di proposte che noi riceviamo. Pensi a quanti teatri ci sono a Milano e pensi a quante compagnie non vengono a Milano. Noi abbiamo tre sale, l’Elfo ne ha tre, il Piccolo altre tre. E la programmazione è completa. La gente va a teatro.

Ma allora qual è il problema?
È il peso che ha il teatro nella società, è l’attesa, è lo spazio che gli danno i giornali. Un tempo la prima di Strehler era attesa da tutta la città. Adesso non sappiamo più chi debutta, chi non debutta, ci sono tre prime insieme. Si è tolta importanza alle singole cose che si fanno.

Quali sono i nuovi spettacoli di valore?

Io per esempio penso a Filippo Timi. Non è un caso se gli ho aperto le porte del mio teatro.

Perché?
Perché ha talento. Non cita altro. Perché è tutta una forza dirompente della sua vita, della sua storia, della sua mente, della sua intelligenza, della sua fantasia... Non tiene conto di cosa fa l’uno o cosa fa l’altro. Lui è. È tutto se stesso. Si gioca la partita in palcoscenico tutte le sere. E ha un grande talento, perché scrive, recita, fa il regista. Perché è caotico, perché non ci vede (ha problemi di vista, ndr), perché balbetta, perché soffre, perché ride, perché ci prende in giro. Perché ha la stessa tantità, non so come dire, che in parte avevamo trovato in Testori. Di gente che è "tanta" così non ce n’è tanta. Quando trovi persone così, poi gli altri ti sembrano dei nani.