Francesco, più leone che agnello
Bergoglio in pellegrinaggio nei luoghi del "suo" santo. Per questa visita storica, proponiamo un testo di Giovanni Testori, da "Il Sabato" del 1981. Dalle fonti francescane alla ricerca del volto di un uomo spesso frainteso. Prima di tre puntateChi, riaperte quelle che usano chiamarsi Fonti francescane, vi si sia lentamente stretto e abbracciato, ovvero stretto e abbracciato ne sia stato, tentasse poi di paragonare l’immagine che, di Francesco, prorompe da quelle testimonianze così dirette da parer scalfite nella carne e nell’ossa, anzi scolpite proprio con lei, la carne, e con loro, le ossa; chi, deciso, tentasse poi di paragonare quell’immagine all’altra che, nel giro dei secoli, abbiam lasciato che, di lui, restasse nell’aria, libellula, forse santa, ma dolciastra e mielosa, certo eccedentemente fiabesca, quando non interessatamente naive, avrà la certezza che qualcosa come un tradimento sia stato perpetrato sul corpo e sull’anima del grande, roccioso, umile, assoluto, tronchico, «cruciato» e inevitabile Santo d’Assisi. Appena poi volessimo addentrarci più in profondo nei termini di quel confronto, non potremmo non dare a tale tradimento il nome che gli compete; quello dell’astrazione. Dunque d’un modo d’esistere, anzi di non-esistere o d’ipotizzare la vita, il suo sigillo creaturale, la sua urgenza caritativa e resurrezionale, infine il suo stesso primo e ultimo significato; un modo che abita esattamente agli antipodi di ciò che fu l’esperienza di Francesco come la si evince da quelle Fonti; cioè a dire dai suoi scritti e dagli altri che, concernendolo, furono a lui così vicini o così addosso nel tempo da potersi dire coèvi: ovvero "trascrizioni", sulla cui fedeltà di fondo, verrebbe da dire di materia, dunque, di realtà e concretezza, non pare possibile nutrir dubbi.
Noi ci chiediamo allora se quest’altro peccato d’astrazione, mascherato di sensibilismo intimistico e dal correlato, pietistico espansionismo, l’uno e l’altro più accorti che accorati, non rifletta, nel caso specifico di lui, Francesco, ciò che con ogni probabilità rappresenta lo stato più degradato, proprio perché in nulla drammatico, d’una presunta ontologia della fede, anzi, d’una presunta ontologia del cristianesimo che ha proceduto e procede nella continua, razionalizzata separazione tra Parola e vita, tra Parola e nascita, tra Parola e storia, tra Parola e morte, tra Parola e resurrezione; per dir tutto e con più responsabile chiarezza tra Parola e carne; e che, dunque, ha proceduto e procede nel senso inverso a quello, segnato una volta per sempre, dall’evento dell’Incarnazione. E qui la parola «senso» la si usa anche nei confronti di ciò che fu ed è tempo; e di ciò che fu ed è spazio.
Potremmo cominciare con l’esame linguistico d’uno dei titoli che, in tali Fonti, risulta tra i più famosi. Tale titolo è, in latino, Legenda; Legenda major, appunto, e Legenda minor, a proposito dei due memorabili testi di Bonaventura da Bagnoregio. Dove il gerundivo «cosa da leggersi» è passato via via, a significare un traslato favolistico; e, dimettendo così il suo stretto e non facilmente superabile termine d’invito e, quasi, d’imperativo alla lettura e alla meditazione che ne deriva, ha, piano piano, aperto un sonnolento interrogativo circa la veridicità stessa dei fatti narrati; alleggerendoli sempre di più e sempre di più spostandoli verso la vaghezza dei possibilismi simbolici. Questo, nei casi meno gravi. Ché, nei più gravi, usati e frequentati, tale alleggerimento ha sostituito il peso stesso della realtà con la levità delle affabulazioni defluite da nuclei storici non più recuperabili o il cui recupero non riesce più a interessare. Per arrivare a un esempio: tale metodo ha con certezza sostituito alla realtà lucente, responsabilizzante e, a suo modo, schiantante del miracolo, l’irrealtà del miracolismo; buono, forse, per ogni soluzione mediana, ma altresì per ogni patteggiamento; fin pei patteggiamenti propri all’ironia, se non addirittura a quelle forme di leggerezza e indifferenza somme, che collimano poi con lo scherno e il rifiuto.
Insomma pare a noi che non si sia tenuto nel conto, nel rispetto o, per dir meglio, nel «fulcro» dovuto quel Corpus principe ed originario che sono e restano le succitate Fonti; dalle quali, credo, dovrà sempre partire e alle quali dovrà sempre tornare ogni appropriazione che il succedersi del tempo tenti di fare dell’esperienza apertissima di Francesco; apertissima, proprio perché definita come un blocco di pietra, come il crinale d’un monte o come l’erigersi d’un tronco; apertissima proprio perché, alla fine, slabbrata sugli abissi del mondo come una ferita.
Il termine "appropriazione" potrà parer eccessivo o smodato; quantomeno, irrispettoso proprio nei riguardi di quella realtà di base di cui s’è fin qui lamentato il continuo tradimento. Ma, per l’appunto. Non è che il tentativo, il quale, più che legittimo, è necessario (e, del resto, con onestà, come agire diversamente?); non è, dicevo, che il tentativo di recuperare l’esperienza d’un Santo, nel nostro caso del Santo assisiate, e il connesso bisogno di riportarla qui, nei chiasmi drammatici del nostro tempo, nelle crepe e nelle lacerate ansie del nostro cuore dimentico e dimenticato, per averne un aiuto in quell’imitazione di Cristo cui ogni vita (e ogni tempo) alla fine, per raggiungere il proprio senso, la propria verità e la propria salvezza, non può non ricondursi, sia illegittimo. Illegittimo è che tale ripercorrimento parta dalla immaginetta, o siliqua, od ombra, che di quel Santo abbiamo lasciato alitasse sopra e intorno a noi; che parta cioè da una persona o da una figura evitate. Immaginette, silique ed ombre, le quali per smangiate o aureolate che siano da luminosi contorni, permettono sempre di defilare dall’incontro (o dallo scontro, se così è necessario che sia); insomma, dal ripercorrimento reale di un’esperienza di santità che fu, appunto e in sommo grado, reale; quanto dire precisa, concreta, quotidiana, sudata, dolente e, nel senso della carità, d’un esclusivismo quasi feroce. Più leone e toro, insomma, che agnello; o agnello e vittima, in quanto leone, pietra e toro. Questo soprattutto se tale ripercorrimento deve, giocoforza o per forza d’amore, trascinare quell’esperienza nell’incertezza o, dato che parliamo oggi e qui, nel punto in cui la creazione si trova, nel pantano e nell’agonia d’un tempo come il nostro. Anzi tali immaginette o silique, o ombre, sono esse stesse il risultato d’un continuo, progressivo defilamento; risultato ed effetto che, a furia di frequentazione si fanno a loro volta causa.
A questo punto, l’interscambiabilità fra causa ed effetto finisce con il lasciar fuori proprio lui, Francesco; ed anche noi; anche il nostro pantano e la nostra agonia; e la disperazione e la cenere dei nostri anni. Liberato per quella via, ogni discorso, comunque lo si voglia nominare, si fa compiaciuta retorica; o, come s’è già detto, compiaciuta astrazione; dunque, dimenticanza. Essendo l’astrazione forma estrema proprio di lei, la dimenticanza: estrema ed estremamente evitante, ancorché di pratica e di convenienza "sociali" nominativamente dette per impegnate; o impegnative.
A proposito della Parola, sulla cui essenza noi cristiani continuiamo a meditare e di cui continuiamo a desiderare e ad affermare d’esser qui per effettuare l’ascolto (ma, ridottici al presente stato, non ne sarà solo un murmure, un’eco quella che tuttalpiù potrà giungerci?), potremmo cominciare riportando la parabola che Francesco raccontò a Innocenzo III; e riportarla, non come la si trova trascritta nella Vita seconda di Tommaso da Celano, dove contrariamente a quanto era accaduto nella Vita prima viene rammentata con molta precisione, ma come si legge nei Sermones di Oddone di Cheriton, che sono appena del 1219 e che, dunque, precedendo di sette anni la morte di Francesco, vanno considerati quali testimonianze al tutto dirette. In quel testo, a spiegazione della parabola che inizia: «un re aveva amato una donna nel bosco e la rese incinta...», Francesco dice con semplicità, ma con sodezza e violenza bibliche e profetiche: «Io sono la donna che il Signore ha reso feconda con la sua Parola ed ha generato questi figli spirituali» (cioè, i confratelli per i quali Francesco, proprio in quell’occasione proponeva a Innocenzo III la Regola).
La Parola che feconda, e la successiva generazione di figli, possiedono una realtà così precisa, così concreta, così carnale da vietare che su tale atto di fecondazione e di generazione possano stipularsi patti di simbolismo minoritario. In effetti il simbolo dell’apparire alla vita non può scaturire che all’interno dell’atto d’amor con cui Dio Padre ha generato e genera ogni suo figlio; che è atto reale; che, anzi, a dir meglio, è la realtà stessa dell’atto in che consiste il nascere reale dell’uomo e, in totale, del cosmo. La fecondità, del resto, è movimento proprio a lei, la Parola, secondo quanto è scritto: «In principio era il Verbo e il Verbo s’è fatto carne e abitò tra noi».
Così l’imitazione di Cristo che Francesco operò per tutta la vita trova nella succitata spiegazione il suo suggello tangibile e palpabile, la cui violenza e gravezza (anche nel senso d’ingravidamento) può lasciar interdetti solo quanti amino o destituire l’Incarnazione dalla sua duplice immensità storica e metastorica, per scinderla e considerarla, o solo come atto storico, o solo come simbolo dunque neppur più come evento, metastorico; ché, qualora la si considerasse quale metastorico evento, essa, per quello che Cristo fu e nel contempo sempre dichiarò d’essere, non potrebbe venir mai separata dal suo precipitare nel tempo e nello spazio, insomma dal suo farsi storia; in che abitò e abita il suo stesso senso e la sua stessa volontà di partenza metastorica e alla metastoria continuamente tesa e protesa come al senso e al soggetto del proprio amore e del proprio destino.
Deriva direttamente da tale considerazione incarnante, e, dunque, concretamente fisica della Parola, il fatto che, nelle sue omelie e nei suoi incontri, Francesco giungesse sempre a un contatto che aboliva ogni distanza e, soprattutto, ogni regime di docenza e discenza, intese come rapporti esterni alla più innamorata comunionalità; e l’aboliva per umile, totale accoglimento di quella Parola; e perché, in Essa, egli viveva completamente annullato e distrutto; affinché essa potesse «abitare» il mondo; che è molto di più dell’essere o del venir ascoltata.